Nel Rinascimento i germi del laicismo moderno
di Giovanni Fighera
09-07-2011
La tesi espressa dallo storico svizzero J. Burckhardt (1818-1897) sulla netta cesura tra la civiltà medioevale e quella rinascimentale è stata ormai superata da tempo da una più imparziale rilettura del Medioevo che ha permesso di interpretare l’esplosione artistica del Quattrocento e del Cinquecento come conseguenza, almeno in parte, di alcune premesse culturali dei secoli precedenti. Certamente, però, esistono alcune differenze fondamentali tra i due periodi a livello di concezione dell’uomo e della vita.
Forse è l’umanista Coluccio Salutati (1331-1406) a descrivere meglio in un’espressione sintetica una delle più grandi novità del Rinascimento rispetto al Medioevo, ovvero una mutata percezione religiosa, in un certo senso in parte eterodossa, dettata dalla convinzione che i meriti umani possano portare l’uomo alla salvezza. Sua è, infatti, l’espressione: «Del Paradiso è degno l’uomo che ha compiuto grandi azioni in questa terra». L’intellettuale di inizio Quattrocento ha sostituito al merito cristiano l’idea di merito umanistico e ha maturato la convinzione che l’uomo possa con le proprie opere ottenere l’immortalità, la fama su questa Terra e l’eternità poi.
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Accanto a questo umanesimo cristiano che ha prodotto tante testimonianze artistico–culturali si è diffuso, successivamente, in età moderna «una forma di umanesimo caratterizzato dall’assenza di Dio e spesso dall’opposizione a lui. Questo clima ha portato talvolta a un certo distacco tra il mondo dell’arte e quello della fede» («Lettera agli artisti»). Ora, invece, se indagassimo più specificatamente l’immagine di donna ideale trasmessa dalla letteratura del Quattrocento e del Cinquecento, vedremmo quanto si fosse ormai lontani in quest’epoca dalla visione angelicata della Beatrice dantesca quale accompagnatrice dell’uomo verso Dio, vera figura pontefice tra Terra e Cielo.
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