Articolo pubblicato il: 2 novembre 2011 @ 14:34
(di Valentina Colombo) Lo scorso 27 ottobre i due principali quotidiani italiani, “Corriere della Sera” e “Repubblica”, hanno annunciato la vittoria delle elezioni tunisine da parte del partito Al-Nahdha parlando di islamismo “moderato”.
Il giorno successivo il quotidiano arabo internazionale “Al Hayat” conteneva un editoriale di Raghda Durgham dal titolo L’occidente confisca le rivoluzioni a vantaggio degli islamisti che esordiva con queste parole: «Mentre l’occidente parla della necessità di accettare il risultato del processo democratico che ha portato gli islamisti al potere nella regione araba, aumentano i dubbi circa le intenzioni dell’occidente stesso che ha avviato una nuova politica volta a favorire lo sviluppo della corrente islamica indebolendo le correnti moderniste, laiche e liberali».
Anche altri commenti provenienti dal mondo arabo non trasudano certo tranquillità né serenità per i risultati tunisini. A prescindere dal fatto che sono sempre stata contraria al termine moderato riferito sia all’islam sia ai musulmani, prediligendo altre definizioni, mi domando come possa essere “moderato” un partito legato ai Fratelli musulmani il cui motto è dato dal verso 60 della sura VIII del Corano: «E preparate contro di loro forze e cavalli quanto potete, per terrorizzare il nemico di Dio e vostro, e altri ancora, che voi non conoscete ma Dio conosce, e qualsiasi cosa avrete speso sulla via di Dio vi sarà ripagata e non vi sarà fatto torto».
Sebbene Rached al-Ghannouchi, leader di Al-Nahdha, non solo nel corso di tutta la campagna elettorale, ma sin dal suo rientro dall’esilio in Gran Bretagna, abbia giocato al ribasso ovvero rassicurando i tunisini sul fatto di non volere uno stato teocratico, di non volere fare venire a meno i diritti acquisiti dalle donne tunisine, di avere come modello la Turchia, è evidente che non potrà certo venire a meno ai pilastri del suo pensiero e della dottrina dei Fratelli musulmani. Non fonderà uno Stato teocratico, ma uno stato in cui la sharia, l’islam svolgeranno un ruolo preponderante.
D’altronde Ghannouchi stesso nel volume Muqarabat al-‘ilmaniyya (Avvicinamenti alla laicità, Dar al-Mujtahid, Tunisi 2011, p. 33) non dà adito a dubbi sulla sua concezione di Stato: «Lo Stato islamico è uno stato di diritto per eccellenza ovvero l’autorità della sharia prevale su quella dello Stato». È pur vero che i più hanno conosciuto al-Ghannouchi solo negli ultimi mesi e soprattutto attraverso le sue dichiarazioni alla stampa internazionale.
Sono in pochi ad avere avuto modo di leggerne gli scritti in arabo, primo fra tutti il suo saggio fondamentale Le libertà generali nello Stato islamico (Al-hurriyat al-‘amma fi al-dawla al-islamiyya, Markaz Dirasat al-Wahda al-‘Arabiyya, Beirut 1993, p. 48). Qui nel paragrafo dedicato a La questione dell’apostasia scrive: «L’apostasia è la miscredenza, in modo consapevole e per propria scelta, dopo avere abbracciato l’islam. Questo attraverso la rinnegazione, oppure una forma simile, dei fondamenti dell’islam, quali gli articoli di fede, le leggi divine o simboli.
Ad esempio attaccare la dignità divina o della profezia, oppure autorizzare ciò che è vietato dalla religione oppure negare i doveri religiosi e così via. I versi coranici hanno enunciato più volte la ripugnanza di questo reato e minacciato chiunque se ne renda colpevole di un castigo cocente, senza però esplicitare una pena precisa nella vita terrena. Invece la tradizione islamica identifica la pena nella condanna a morte: “Uccidete chiunque cambi religione”.
Tutti i Compagni – Dio si compiaccia di loro – concordano sulla condanna a morte degli apostati». Sempre nello stesso volume, a pagina 54, affronta il tema della sharia come fonte di legislazione: «Come non stipulare l’islamicità di un capo (di Stato), il cui compito essenziale è quello di mettere in pratica la religione, orientare la politica dello Stato nei limiti dell’islam, di educare la nazione islamica secondo i precetti dell’islam, di esserne la guida nella preghiera, di predicare […] e di essere un esempio da imitare? Il Corano è chiaro.
Ha stabilito che il sovrano debba essere musulmano: “Obbedite a Dio, all’Inviato e a coloro tra di voi che detengono l’autorità” (Corano, IV, 59). È assurdo, impossibile chiedere a un non musulmano assumere il potere, vigilare sulla religione e la gestione degli affari terreni». Questi sono solo alcuni esempi del pensiero del leader del partito Al-Nahdha che chiariscono perfettamente che si tratta di un’ideologia giustificata dall’islam.
Quel che stupisce è che l’occidente non ascolti le persone che in Tunisia, in particolare, nel mondo arabo in generale conoscono i Fratelli musulmani dai loro discorsi in arabo, ovvero dalle fonti dirette, non dai discorsi impacchettati per l’occidente in francese e in inglese. Basterebbe ricordare l’ammonimento di Mohammed Charfi, intellettuale tunisino ed ex Ministro dell’Istruzione, che nel suo saggio Islam et liberté ha definito in mondo molto esplicito gli islamisti “moderati”: «Gli osservatori definiscono oggi moderato l’islamista che innanzi agli occidentali usa un linguaggio ragionevole e che non sceglie apertamente l’azione violenta.
Anche se lo stile calmo e il rifiuto della violenza sono sinceri, dal momento che il movimento è sempre legato alla sharia e alla sacralizzazione della storia, la moderazione rimane provvisoria e indica una strategia d’attesa, perché gli ingredienti della radicalizzazione non sono scomparsi». Ebbene secondo Charfi gli islamisti «cesseranno di essere un movimento di sovversione politica solo quando ammetteranno che il diritto positivo moderno, diverso dalla sharia, è legittimo»… E questo momento non è ancora arrivato! (Valentina Colombo)
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