Oscar Giannino 9 maggio 2012
Il primo turno delle amministrative italiane mi ha reso assolutamente felice. Ripeto as-so-lu-ta-men-te. Anche se i numeri economici da cui nasce mi rendono preoccupato e triste. Non capire che cosa esprimano quei numeri, e dunque restare stupiti dalle urne, è il segno che i vecchi partiti sono dei cadaveri. Dei tanti pensosi commenti preoccupati dell’antipolitica e del successo dei grillini, come di chi lo nega si chiami Napolitano o Ferrara, me ne rido e penso sia giusto farlo. Sarò urticante per i signori dei partiti attuali, ma chi mi legge qua credo non se ne stupisca, perché da moltissimo tempo ho spiegato come vedessi finito il vecchio centrodestra come il vecchio centrosinistra. Questa tornata amministrativa lo dichiara ufficialmente. La Seconda Repubblica è finita. Finalmente, dico io. Il motivo è francamente tanto oggettivo che sta nelle vite di noi tutti, qualunque sia il partito che in passato abbiamo votato o non votato.
Sta nel fatto che gli italiani negli ultimi sei mesi sono stati dolorosamente costretti – dopo aver tenacemente tenuto gli occhi chiusi per troppi anni facendosi convincere da politici irresponsabili – ad aprire gli occhi sulla realtà. Dopo aver tremato per sei mesi all’idea, dal giugno a novembre 2011, l’Italia potesse essere lei con la sua esplosione il detonatore dell’euro, oggi gli italiani si avviano a una perdita del Pil procapite del 2% e un calo dei consumi reali procapite del 3%, dopo anni di consumi zero seguiti all’altra botta del 2008-2009. Siamo a 22 punti di produzione industriale in meno rispetto ai picchi di metà 2007. Gli investimenti scendono dalla bassa media 2001-2007, pari a 21% di Pil ogni anno, verso quota 18% in questo 2012. La disoccupazione torna a due cifre, come all’inizio del 2001 prima del pacchetto Treu, ma con la differenza che oggi coi contratti atipici ci siamo giocati una generazione. La pressione fiscale sale di 5 punti di Pil rispetto a un decennio fa, e non è al 45% come dicono le statistiche ufficiali ma al 54% detraendo dal Pil ufficiale l’Italia in nero che le tasse non le paga, mentre la spesa pubblica sul Pil legale è al 60%.
A differenza del 2008-2009 quando la crisi colpì duramente le imprese che esportavano, oggi a essere in ginocchio, in preda a una moria che abbatte decine di migliaia di aziende, è il tessuto della piccola e piccolissima impresa che lavora per il mercato domestico: stremata dalle esose pretese fiscali di uno Stato ladro che non paga i suoi debiti commerciali e non compensa i crediti fiscali per oltre 100 miliardi di euro; dal credit crunch di banche che stanno a propria volta a redditività zero e con cinque mesi di depositi negativi; e dal fatto che tutti sono diventati cattivi pagatori. Di qui lo stillicidio quotidiano di piccoli imprenditori che s’impiccano e si sparano. Nel silenzio generale di politica e governo, che dovrebbero entrambi vergognarsi. Perché la responsabilità è di vent’anni di politica sbagliata – destra e sinistra – facendo sempre salire insieme spesa pubblica e tasse - ma anche oggi dell’algido governo tecnico in carica, che non riesce a capire che occorre immediatamente cambiare linea, metter mano a Cassa Depositi e Prestiti per pagare i 100 miliardi che lo Stato deve da anni alle imprese, e abbattere il debito pubblico privatizzando i mattoni di Stato, non continuano a pestare di tasse gli italiani, imposte dirette con le addizionali locali, imposte indirette con l’aumento dell’Iva, imposte patrimoniali con l’IMU e sui conti titoli.
Forse che non basta un bilancio così amaro e disastroso, per comprendere come e perché centrodestra e centrosinistra vengano giustamente fatti a pezzi nelle urne?
Naturalmente, le crisi dei diversi ceppi politici non sono eguali.
Ma chi può davvero stupirsi, che la Lega venga bastonata dopo quello che è successo intorno a Bossi, e che a salvarsi sia solo il bravo Tosi a Verona, che pure due mesi fa rischiava l’espulsione?
E che il Pdl di fatto non esista più sul territorio, perché semplicemente nessuno dei suoi vertici riesce ancora a dire che la lunga epoca di Silvio Berlusconi è fi-ni-ta, e se nel Pdl resta chi dice il contrario allora bisogna semplicemente andarsene, per cercare facce e idee com-ple-ta-men-te nuove?
Il Pd naturalmente dice che lui vince e la destra perde. Per carità, i suoi resti di consensi e dirigenze territoriali hanno una resilienza incomparabilmente maggiore alla volatilità evaporata del fenomeno berlusconiano. Ma Bersani e D’Alema si illudono, se pensano di essere gli Hollande nostrani. A Genova come a Palermo oggi, come a Milano e Napoli e Cagliari ieri, vincono sindaci che hanno fatto a pezzi i candidati Pd alle primarie. E che vengono scelti e stravotati proprio per questo. E tutti indicano al vecchio partito dal nome finto-nuovo alleanze e politiche diverse da quelle sin qui praticate e dichiarate da Bersani, analoghe a quelle della sinistra antagonista che ha fatto perdere 30 punti al Pasok in Grecia.
Il successo del movimento cinque stelle nasce di qui. Per conto mio non è solo più che comprensibile, ma anche benedetto. E’ l’unico – insieme ai radicali – che sul contributo pubblico ai partiti pratica un coerentissimo rifiuto e restituisce i soldi allo Stato. Il trio A-B-C è riuscito a non capire neanche che la vicenda Lusi e quella Belsito, mentre gli italiani sono in ginocchio per le pretese dello Stato, imponevano una drastica legittimazione morale e la rinuncia di almeno metà del contributo, visto che in 18 anni le cifre rendicontate sono di poco superiori a un quarto dei miliardi incassati.
Naturalmente, sono ragionevolmente certo che centrodestra e centrosinistra non tireranno affatto dal voto le conseguenze che sembrano inevitabili a me. Strattoneranno invece il governo Monti, facendo ballare ancor di più l’Italia mentre l’Europa impazzirà nel forte rischio che la Grecia esca dall’euro e i francesi respingano il fiscal compact, le banche spagnole esplodano e l’Italia a ruota. Nel Pdl i coraggiosi non abbondano, e troppi s’illudono di esser comunque salvati dalla scelta di chi considerano ancora leader, cioè Berlusconi. Il Pd dirà pensosamente che l’Italia e l’Europa vanno finalmente a sinistra, mentre invece il serio rischio è che entrambe vadano a ramengo. E brinderà naturalmente alla fine dell’età neoliberista, che in Italia non è sem-pli-ce-men-te mai esistita, visto che destra e sinistra hanno entrambe alzato spesa e tasse. Non abbiamo mai avuto né un Blair a sinistra né un Cameron a destra, in questo Paese.
Solo se Grillo andrà ancor più su nei sondaggi nazionali, forse qualcuno uscirà dal vecchio schema dei 18 anni alle nostre spalle. Altrimenti, ne sarà fatta giustizia elettorale dal basso, qualunque sia la data delle prossime politiche. Alle quali bisogna andare non con una legge proporzionale, ma semplicemente con partiti e alleanze diverse.
Per i liberali liberisti personalisti e sussidiaristi come me, c’è da gioire, e insieme non c’è molto da sperare. Tranne esser pronti a un’offerta politica diversa che ci consenta di testimoniare che l’Italia può crescere – e dico a cominciare dalla componente demografica, abbattuta per l’umiliazione della famiglia da parte del leviathano statuale tassicodipendente- solo con uno Stato radicalmente diverso. A governare saranno naturalmente con ogni probabilità altri, statalisti vecchi e nuovi. Ma chi non pensa che debba essere amaro e pieno di fatica, il cammino della redenzione e della rilegittimazione liberal-liberista dopo 17 anni di promesse vergognosamente tradite dal centrodestra berlusconiano, secondo me si illude della grossa.
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