Imprenditori suicidi, fisco e banche: l’iniquità di un sistema in una visione autobiografica
(.......) Letto l’accaduto a Bologna,sono andato indietro di quindici anni: ad un me stesso piccolo industriale, fiero del pane che davo ad una quarantina di dipendenti diretti ed al centinaio che lavoravano per miei terzisti nel sud: investivo nell’azienda, ma vivevo lavorando moltissimo. Se ai miei commerciali mettevo a disposizione grosse autovetture, io non utilizzavo un’auto aziendale neppure per andare avanti/indietro dal lavoro …. E non ho mai caricato un pasto ”privato” come spesa aziendale …, Anche se il fisco poi ogni pranzo di lavoro offerto a controparti e legittimamente spesato lo considerava deducibile solo in parte! Un fesso, direte voi! Ma essere “in proprio” era stato il mio sogno da top manager, ero contento perché mi sentivo utile e rispettato: mi bastava.
Poi una globalizzazione insensata nei suoi tempi così rapidi, e che per questo avevo erroneamente creduto sarebbe stata temperata da interventi governativi di qualche sorta, o rallentata da qualche veto italiano in sede europea: il tessile-abbigliamento, che in Italia impiegava quasi due milioni di persone, era il primo settore ad esserne investito, ed io mi illudevo ancora che il primo interesse della nostra politica fosse il bene comune. Fermo in questa convinzione ho visto tutte le altre aziende industriali del mio genere chiudere in un raggio di trenta chilometri, mentre io tiravo avanti: ma poi dopo la concorrenza di chi fabbricava nell’Europa dell’Est è arrivata quella della Cina, e nell’arco di un paio di anni i nuovi concorrenti potevano vendere prodotti comparabili ai miei ad una modesta frazione dei miei costi!
Mi era stato consigliato di “tagliare le perdite”, ma il mio senso d’onore me lo precludeva: per me che fino a poco tempo prima non avevo mai pagato una bolletta in ritardo era però penoso ed innaturale negoziare con banche sempre più voraci, un’INPS che applicava ai miei ritardi interessi esagerati (nonché fiscalmente indeducibili) , e fornitori che poiché nei guai quanto me erano diventati fin troppo ragionevoli. Il peggio era guardare negli occhi i miei operai, che sapendo cosa stavo passando, anche se in ritardo di stipendio mi hanno sempre sostenuto: con essi ho avuto ogni aiuto dai sindacati, quelli stessi che non mi avevano permesso di ridurre il personale veramente superfluo alcuni anni prima.
Soprattutto perché avevo visto incrinarsi l’immagine che avevo di me stesso, e sentivo di aver perso il mio senso di dignità e di onore, quante volte in quegli anni ho pensato al suicidio? Molte, troppe… ma permaneva quel senso cattolico del “non si può fare”, ed il fatto di avere dei figli ancora piccoli: allora ho pregato di poter perlomeno morire, ma per mia fortuna attuale non è successo. Alla fine, dopo avere affossato in quella azienda che tanto amavo tutto quanto avevo guadagnato fino a quel punto della mia vita… ho capito che non ce l’avrei fatta comunque, ed invece di”morirci sopra” sono andato da quel padre cui, unico dei miei fratelli, non avevo mai chiesto nulla neppure quando mi ero sposato, e gli ho domandato in anticipo parte della mia eredità futura … e con questo ho finanziato l’azienda industriale per quanto bastava a tamponare le falle che ne impedivano la vendita (a valori irrisori) ad un imprenditore che con essa non sarebbe però riuscito ad andare troppo avanti nel tempo, ed a chiudere, pagando di tasca mia ogni suo conto, l’azienda artigiana che le avevo creato di supporto.
Dopo la stanchezza e la pressione degli ultimi due anni di lavoro in quelle condizioni, sono scese su di me la vergogna di una sconfitta cui non ero avvezzo ed una sensazione enorme di inutilità della mia vita… Ci sarebbero voluti anni e la vicinanza di una donna speciale, che a differenza di altre a quel punto mi amava certamente per quello che ero e non per quanto possedevo o rappresentavo, per spegnere quel desiderio di annullamento e morte che mi portavo dentro.
Come avrebbero potuto sopravvivere altri imprenditori altrettanto determinati, rigidi ed ostinati, ma privi dei miei mezzi per venirne fuori? Si sarebbero suicidati? In una occasione in anni per me più floridi avevo pagato io stesso le spese di commercialista ed avvocato ad una mia piccola concorrente, per permetterle di fallire senza conseguenze: aveva lottato fino in fondo e non aveva più neppure di che fare la spesa: anni dopo incontrandomi casualmente mi ha detto che senza il mio aiuto in quella occasione si sarebbe suicidata… Un mio altro concorrente, però della mia stessa stazza, dopo aver visto il fallimento della sua azienda nel ’98 si è scoperto malato di tumore, ed in cinque settimane se ne è andato.
Capirete perché nulla mi dà fastidio più della mentalità cattocomunista che vede in ogni imprenditore un evasore ed un ladro, da mungere e controllare comunque in ogni modo: nella mia vita successiva di imprenditori ne ho frequentati tanti, anche perché sapevo come aiutarli meglio di altri quando si trovavano in difficoltà estreme. Se fra loro v’erano alcuni farabutti (che ad onta del prof. Monti dormono tranquilli e continuano a farla franca) la maggior parte certo non lo era, e cercava semplicemente di portare avanti la propria attività nel modo più regolare possibile in un contesto sempre più avverso.
Chi mi conosce sa come a quel punto, libero dai paraocchi di un cavallo impegnato a tirare la sua carretta, io abbia cominciato a chiedermi le ragioni di quanto avvenuto, guardando con occhio critico al sistema economico ed a quello finanziario, e stupendomi di quanto andavo scoprendo: se è stato relativamente facile arrivare a comprendere le logiche delle banche commerciali, è stato più laborioso capire la meccanica di quel sistema capitalistico-finanziario che la fine dell’alternativa comunista aveva liberato da ogni suo timore e con esso dalla necessità di condividere la ricchezza con tutti i ceti per mantenere la pace sociale nell’Europa Occidentale. A quel punto esso si era poi organizzato, combinando e governando logiche finanziarie e di globalizzazione, per rastrellare in poche mani tutta la ricchezza ed il benessere creati in mezzo secolo di libertà politica ed economica nei paesi della nostra Europa che più si prestavano allo scopo.
Questi neo-liberisti (che nulla hanno in comune con il pensiero liberale di Einaudi e Sturzo), dopo il tracollo dell’impero comunista hanno potuto far rivivere in chiave moderna le teorie di Smith e Ricardo che ad inizio ‘800 propugnavano una libera concorrenza, basata soprattutto sul costo del lavoro, in mercati aperti senza vincoli o barriere di sorta: le hanno poi applicate su una scala globalizzata planetaria nella quale rientrava anche una Cina nazional-comunista la cui competitività derivava soprattutto da nuove ed inaccettabili forme di legalizzazione della schiavitù nel mondo del lavoro. Il nuovo sistema sta così vanificando nel mondo occidentale un secolo di progresso nelle condizioni socio-economiche dei ceti medi e di quelli meno abbienti: per l’estremizzazione del profitto si è insomma umiliato il contenuto “etico” ed ambientale insito in quanto veniva prodotto e consumato in Occidente, pregiudicando il nostro futuro.
Man mano che mi si aprivano gli occhi, compreso che il bene comune non è l’obbiettivo né della politica né della finanza, ho iniziato a valutare in modo diverso le informazioni mediatiche, e soprattutto quanto ci veniva sottaciuto. La pressione fiscale e quella contributiva rendono ormai praticamente impossibile lavorare in Italia, salvo che per grandi aziende, che conseguono ancora risultati di rispetto:secondo la Banca Mondiale la tassazione complessiva dei profitti aziendali in Italia, che include anche i contributi sul lavoro e le altre imposte minori, è del 68,6%: venti punti in più rispetto alla Germania, il nostro punto di riferimento per la sua funzione di traino dell’Europa e per la comune vocazione manifatturiera, e venticinque punti in più della media Ocse.LEGGI TUTTO
Nessun commento:
Posta un commento