Così l'Africa vende i suoi contadini
di Anna Bono
01-03-2012
In Liberia da mesi gli abitanti della regione occidentale di Grand Cape Mount County rivendicano il diritto di tornare a vivere e lavorare nelle loro terre ancestrali ora coltivate a palma da olio dalla multinazionale malese Sime Darby e tentano di impedire che le colture vengano ulteriormente estese.
Se la multinazionale avesse creato posti di lavoro e sviluppo economico, nessuno si sarebbe lamentato, pur criticando il fatto che il governo abbia stipulato i contratti di concessione delle terre senza consultare le comunità locali. Invece la Sime Darby, per far spazio alle proprie piantagioni, ha espulso con la forza migliaia di contadini, senza neanche rispettare l’impegno preso di risarcirli con somme di denaro.
Non è un caso isolato. In Liberia dal 2006 il governo ha venduto o affittato a privati stranieri più di un terzo delle terre coltivabili e delle foreste del Paese. Inoltre il fenomeno - chiamato "land grabbing", in italiano "accaparramento di terre" - riguarda tutto il continente africano. Ad acquistare e affittare i suoli africani, oltre ai privati, sono anche diversi stati indotti a farlo o per scarsità di terre coltivabili, come nel caso dell’Arabia Saudita, o per necessità di incrementare la produzione agricola a fronte di una maggiore domanda interna, come nel caso della Cina e di altri paesi emergenti. Una delle spinte all’espansione del land grabbing è inoltre data dalla crescente richiesta di biocarburanti, la cui produzione necessita di enormi estensioni di terra.
Uno studio realizzato dalla Rights and Ressources Initiative, un gruppo di organizzazioni non governative, e pubblicato all’inizio di febbraio rivela che in 35 stati dell’Africa subsahariana in questi ultimi anni i governi, approfittando di sistemi fondiari malfunzionanti e soprattutto abusando dei poteri di cui dispongono, hanno confiscato il meglio e la maggior parte di quel un miliardo e quattrocento milioni di ettari di terre agricole dalle quali dipende la sopravvivenza di 428 milioni di contadini poveri, poco più della metà della popolazione subsahariana.
È ovvio che se le terre concesse sono coltivabili, meglio sarebbe se fossero gli africani a farle fruttare e a venderne i raccolti. Il loro affitto può ammontare anche solo a uno o due euro all’anno per ettaro. Oltre tutto viene incassato dai governi e si sa quanto poco delle risorse di uno stato africano vada speso in politiche sociali ed economiche utili allo sviluppo e al benessere collettivo.
Per di più molti governi stipulano i contratti senza esigere garanzie a tutela dell’ambiente e senza neanche preoccuparsi di sapere a che uso verranno destinati, lasciando i proprietari o i locatari liberi di inquinare e sfruttare senza criterio i terreni. Nella migliore delle ipotesi, una parte degli abitanti delle terre cedute trovano lavoro come braccianti, a meno che invece vengano impiegati degli immigrati dei paesi acquirenti, come succede di solito con i terreni acquisiti ad esempio dalla Cina. Il dramma è che invece, nel disinteresse dei loro governi, spesso le popolazioni locali sono costrette a lasciare abitazioni, pascoli e campi senza quasi preavviso, come è capitato ai contadini liberiani di Grand Cape Mount County, senza ricevere risarcimenti e senza che vengano predisposti programmi di reinsediamento in nuove aree attrezzate e servite da infrastrutture. Dei 35 stati studiati dalla Rights and Ressources Initiative, soltanto nove risultano essersi minimamente preoccupati dei diritti delle comunità rurali e della loro sorte.
A queste condizioni i terreni affittati e venduti non solo non rendono, ma impoveriscono i Paesi e i loro abitanti.
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