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venerdì 26 novembre 2010

SONO PASSATI 47 ANNI DALL'ASSASSINIO DI J.KENNEDY....PERCHE' LO AMMAZZARONO??? CE LO CHIEDIAMO DOPO QUASI MEZZO SECOLO!!!

Nell'anniversario dell'assassinio

del presidente Kennedy
"Scegliamo di andare sulla Luna in questo decennio e di fare altre cose, non perché esse siano facili, ma perché sono difficili. Questa è la sfida che vogliamo accettare, che non vogliamo posticipare e che vogliamo vincere", John F. Kennedy, 12 settembre 1962.
24 novembre 2010 (MoviSol) - Quando si discute della necessità di una svolta economica e strategica nel mondo di oggi, è inevitabile fare riferimento ad alcuni personaggi storici che più di altri hanno avuto il coraggio di imprimere un cambiamento fondamentale nella politica del proprio paese. A me capita spesso di citare il grande presidente americano John F. Kennedy come esempio di uno che capi la vera posta in gioco e diede una dimostrazione di come liberarsi da una gestione geopolitica del mondo in cui alcuni gruppi sovrannazionali cercano di garantirsi un'influenza a favore dei propri interessi, piuttosto che del bene comune.
Tuttavia non è raro che qualche interlocutore metta in discussione l’effettiva volontà di cambiamento da parte di Kennedy, dicendo in particolare che fu proprio JFK ad indire l'escalation militare nel Vietnam. La mia sorpresa nel sentire questa obiezione scaturisce dal fatto che ormai la versione "ufficiale" sulla morte di Kennedy viene accettata da ben poche persone, e che quindi mi aspetto che anche le falsificazioni delle sue posizioni siano poco credibili. Le fonti che smontano le tesi della Commissione Warren sull’assassinio sono tantissime, e tanto ha fatto, a livello popolare, il film "JFK" di Oliver Stone, provocando una forte risposta nella popolazione americana. La discussione sull'assassinio tocca anche il punto del Vietnam, indicando come Kennedy non fosse affatto convinto di seguire il "complesso militare-industriale" - come lo definì il presidente ed ex-generale Dwight D. Eisenhower - nella lunga guerra geopolitica che avrebbe fatto così tanti danni umani e politici negli anni successivi.
Eppure l'escalation ci fu, e il disastro della guerra del Vietnam è ancora fresco nella mente della società, anche per via dell’evidente fallimento dell'intervento militare in Afghanistan di questi anni. Allora diventa importante chiarire la questione: il presidente Kennedy voleva davvero fermare la guerra in Vietnam? La risposta è indubbia: sì. Ma per capire come maturò questa decisione - disattesa nei fatti dopo la morte del presidente - occorre renderci conto di come un leader politico a quel livello debba affrontare un simile cambiamento di rotta.
Come sovente succede nella vita pubblica, non è facile prevedere in anticipo che cosa farà un personaggio politico una volta arrivato ad occupare una posizione di potere. Sono molti gli esempi di chi ha tradito le aspettative, o viceversa di chi si è rivelato all'altezza di un compito che sembrava fuori della sua portata. E soprattutto, non si può definire una persona solo in base alla propria posizione sociale e gruppo di appartenenza, perché si rischia di negare il ruolo fondamentale dell'individuo nella storia. Infatti John F. Kennedy veniva da una famiglia non proprio pulita: suo padre era noto per i legami con la malavita, la quale avrebbe garantito la vittoria di JFK comprando i voti a Chicago.
L’approdo di Kennedy alla Casa Bianca diede inizio ad una stagione di cambiamento innegabile. Però tale cambiamento non fu scontato, e si scontrò contro il grande ostacolo di una struttura di potere che non aveva alcuna intenzione di prendere ordini da un giovane presidente considerato inesperto ed ingenuo. Come documenta in modo molto dettagliato l'eccellente libro JFK di L. Fletcher Prouty - il vero Signor X nel film di Stone - l'orientamento della politica di sicurezza nazionale fu guidato da personaggi che si consideravano superiori al presidente, come ad esempio il direttore della CIA Allen Dulles. Il caso più eclatante, che alla fine diventò il primo passo verso una svolta nella presidenza Kennedy, fu l'invasione di Cuba alla Baia dei Porci.
Il piano per l'invasione era stato preparato prima dell'insediamento della nuova amministrazione: i rappresentanti delle agenzie di intelligence tracciarono prima i contorni dell'intervento e chiesero l'approvazione del presidente solo all'ultimo momento. Per via di un clamoroso errore di McGeorge Bundy – forse non si saprà mai se fu casuale o provocato intenzionalmente da qualcuno - l'invasione fallì provocando una figura disastrosa per gli USA. Da quel momento in poi Kennedy si rese conto di non essere davvero al comando e decise che era ora di imporre la sua volontà sulle istituzioni dello Stato. Il processo cominciò con un'indagine interna sul fallimento dell'operazione, e portò ad una riorganizzazione del funzionamento della squadra di sicurezza nazionale; il presidente riuscì a marginalizzare almeno in parte quelle figure che remavano contro il cambiamento da lui voluto.
Lo sbocco più importante del nuovo corso fu nella politica verso il Vietnam. Nel 1963 l'intervento americano in Vietnam era ancora interamente sotto l’egida della CIA; non c’erano truppe dell’esercito regolare USA nel paese. In qualità di "consiglieri" i reparti della CIA aumentarono in modo costante fino a rappresentare una forza imponente garantendo la fornitura massiccia di armamenti e in modo particolare elicotteri da guerra e i loro equipaggi. Di questo passo era inevitabile un coinvolgimento ancora maggiore degli USA, in quanto l'intervento stesso garantiva l’escalation della guerra. Furono spostati più di un milione di vietnamiti dal nord al sud del paese, che insieme alla fame e alla miseria in cui fu gettato il paese, grazie al conflitto, portarono a delle rivolte interne che vennero immediatamente considerate come la longa manus dei comunisti del Nord e della Cina. Non c’era alcun piano di vincere la guerra in senso classico, in quanto avrebbe richiesto un’invasione del Nord con il rischio di un numero enorme di morti americani e anche una potenziale risposta diretta da parte della Cina, minacciando un allargamento del conflitto a livello regionale o mondiale.
Quindi, mentre il paese veniva distrutto e si creavano sempre più nemici, il complesso militare-industriale riusciva a fornire sempre più armamenti, e i maestri geopolitici gioivano per le divisioni che garantivano una gestione delle relazioni internazionali tramite i conflitti. Quando il presidente Kennedy si rese conto dell'impossibilità di vincere la guerra in quelle condizioni, e anche della follia di crearsi nuovi nemici piuttosto che di cercare la cooperazione per lo sviluppo - come invece tentava di fare in altre zone del mondo - decise di cambiare strada. Ordinò una revisione della situazione in Vietnam per sostenere la sua decisione di cominciare il ritiro.
Nel suo libro, Prouty racconta come in realtà Kennedy fece preparare il rapporto a Washington dopo aver mandato in visita nel Vietnam coloro che in teoria avrebbero dovuto stenderlo - il Segretario della Difesa e il Capo di Stato Maggiore. Il presidente sapeva già quali conclusioni trarre, e non intendeva farsi influenzare da nessuno dei settori deviati della propria amministrazione. E infatti dopo la "consegna" del rapporto, e per l'esattezza l'11 ottobre 1963, firmò il Memorandum di azione sulla sicurezza nazionale (NSAM) n. 263, indicando la sua intenzione di iniziare il ritiro del personale americano dal Vietnam già lo stesso anno, e di concluderlo entro la fine del 1965. Poco più di un mese dopo, il 22 novembre 1963, venne assassinato. Quattro giorni dopo l'assassinio, il 26 novembre 1963, il neo-presidente Johnson, chiaramente sotto una pressione micidiale, firmò il NSAM n. 273, che cominciò già a cambiare la direzione indicata da JFK.
In conclusione, l'evoluzione di Kennedy sulla sicurezza nazionale, insieme all’impronta enorme da lui lasciata con il progetto Apollo della NASA e gli investimenti economici produttivi più in generale, fanno di lui un grande presidente. Quando JFK capì il funzionamento delle strutture del potere, decise di adoperarsi per il bene della nazione, pur sapendo di andare esplicitamente contro la posizione dei poteri forti. Per questo, nonostante la sua breve permanenza alla Casa Bianca - meno di tre anni - viene giustamente considerato uno dei migliori tra i presidenti americani.
I paralleli con il momento attuale della storia sono fin troppo evidenti: dal crollo dell'economia e il predominio degli interessi finanziari speculativi, alle manipolazioni geopolitiche che ci hanno abituato a guerre continue nelle zone calde del mondo. Finora i leader politici occidentali non hanno dimostrato la capacità di effettuare una svolta fondamentale rispetto alle politiche che continuano a rovinare l'economia reale e il tenore di vita di gran parte della popolazione, e che promettono anche nuove guerre nel prossimo futuro. Chi avrà il coraggio di sfidare i propri assiomi, e di lavorare davvero per garantire il progresso economico e sociale della società?
Andrew Spannaus

Movimento Solidarietà

Per approfondire:

JFK – The CIA, Vietnam, and the Plot to Assassinate John F. Kennedy, by L. Fletcher Prouty. Birch Lane Press, 1992

mercoledì 24 novembre 2010

"VIENI VIA CON ME" ??? DOVE VUOI PORTARMI???COSA VUOI FARMI CREDERE CHE SIA BUONO PER ME??? QUALE SOTTILE SPONSORIZZAZIONE???

Serra e compagni: vergogna!

di Antonio Socci  24 NOVEMBRE 2010 
Sul settimanale satirico “Cuore” c’era una volta la rubrica “Vergogniamoci per loro”, presentata come un “servizio di pubblica utilità per chi non è in grado di vergognarsi da solo”.
Forse oggi dovremmo ricordare quella rubrica proprio a Michele Serra, il fondatore di “Cuore”. Chiedendogli se non crede di meritarla dopo il corsivo che ieri ha pubblicato sulla Repubblica.
Io penso che gli esseri umani, seppure divisi da occasionali diversità di vedute, possano e debbano incontrarsi nell’universale pietà per il dolore che segna tragicamente la nostra condizione umana. Credo che Serra dovrebbe rifletterci seriamente.
Purtroppo ieri, lui che è uno degli autori di “Vieni via con me”, ha liquidato col ditino alzato la richiesta di molte persone affette da gravi malattie, che lottano per vivere e per vivere in condizioni migliori, di potersi raccontare in quel programma così come, nello stesso programma, è stata raccontata la storia di Welby e degli Englaro.  
Da una settimana questi malati lo chiedono ogni giorno dalla prima pagina di “Avvenire”, denunciano che si sentono soli, silenziati e che vogliono continuare a vivere. Ma a quanto pare Serra, Saviano, Fazio e compagni, hanno decretato che costoro non hanno diritto di parola nella “loro” televisione.
Certo la pietà verso il dolore degli altri esseri umani, visitati da malattie terribili, non è un dovere di legge. Ma quando si tratta di televisione pubblica è anche un problema collettivo. 
Il corsivo di Serra mi è parso alquanto infelice laddove definisce certi ammalati come coloro che “desiderano rimanere in vita a oltranza”. Con una vena di (spero involontaria) ironia.
Serra è arrivato a sostenere che quanti li assistono hanno “un vantaggio oggettivo” (sic!), che sarebbe quello di “operare senza ostacoli giuridici e senza alcuna ostilità di tipo etico”.
Mi auguro che chi scrive cose del genere non debba mai sperimentare direttamente, sulla propria pelle o su quella dei suoi cari, questo meraviglioso “vantaggio” di cui favoleggia.
Spero che non conosca mai lo strazio disumano di vedere un giovane figlio in coma e di non sapere se si sveglierà e in quali condizioni.
Se Serra uscisse dal suo salotto ideologico piccolo borghese, dove le parole stanno col culo al caldo come lui,  e se andasse negli ospedali ad ascoltare chi vive quel dolore feroce, imparerebbe che alla tragedia – già insopportabile – dei nostri figli crocifissi (dalla Sla o dal coma o da altri orrori) ogni famiglia deve aggiungere l’umiliazione e la sofferenza di trovarsi pressoché sola, smarrita in un inferno, senza aiuti, senza mezzi, senza sostegno (tanto che spesso qualcuno – mamma o papà – è costretto addirittura a lasciare il lavoro).
Ed è una beffa affermare che costoro non hanno ostacoli giuridici o etici.
Sulla sua comoda amaca, Serra sembra non curarsi del grido di aiuto che sale da tante famiglie che letteralmente si svenano e si sfasciano per poter soccorrere i loro figli precipitati nel buio.
Costoro non hanno diritto di raccontare la loro strenua lotta per la vita a “Vieni via con me”. Anzi.
Serra arriva addirittura a definire i cattolici, che vogliono dar voce a questi malati e alle loro famiglie silenziate, come “i forti” che pretenderebbero di coartare i deboli, perché si permettono “di protestare dall’alto di una libertà riconosciuta” per chiedere di far parlare tutti.
Ma che vuol dire? Serra scrive: “dall’alto di una libertà”. Ma di quale altezza e di quale libertà sta sproloquiando? E’ lui, Serra, che pontifica “dall’alto” della sua libertà di opinionista, sano (buon per lui) e autore televisivo.
I nostri figli invece vivono nel baratro della malattia. Dove non hanno neanche la libertà di muovere una mano o di pronunciare una parola o di mangiare.
Serra aggiunge un’altra espressione: “dall’alto di una libertà riconosciuta”. Quale “libertà riconosciuta” avrebbero un ragazzo crocifisso e i suoi genitori? Allude forse alla libertà di vivere?
Dobbiamo forse considerare  una graziosa concessione dello Stato o di lorsignori pensatori il fatto che una figlia ammalata viva?
Non credo. Tale libertà non è una concessione di nessuno stato.
Il problema è semmai rappresentato dalle tantissime libertà che questi malati non hanno. Praticamente non hanno nessuna libertà e – adesso – viene negata loro anche la libertà di gridare in televisione la loro richiesta di aiuto.
Non è serio né giusto cambiare le carte in tavola. Questi malati, insieme ai cattolici – a dire di Serra – protestano “dall’alto di una libertà riconosciuta contro chi uguale libertà non ha. Forti che protestano contro deboli: non è neanche molto sportivo”.
E’ un capovolgimento della verità scandaloso. Perché nessuno dei malati che ogni giorno Avvenire mette in prima pagina ha protestato “contro” Welby o Englaro.
Nessuno di loro ha preteso di impedire che venisse raccontata di nuovo in tv la storia di Welby o Englaro. Semplicemente chiedono di poter raccontare pure la loro.  
I “forti” casomai sono Serra, Fazio e Saviano che da tv e giornali – a loro disposizione – teorizzano che questi non abbiano diritto di parola nel loro programma (dando evidentemente per scontato che la Rai sia cosa loro e non una televisione pubblica, pagata dai soldi di tutti).
Questa logica dei forti contro i deboli si piega solo davanti ad altri forti, come il ministro dell’Interno che è riuscito a ottenere una replica, perché è un ministro potente. Ma ai deboli nulla sembra sia dovuto.
Invece tutti abbiamo – o dovremmo avere – il dovere della pietà. E della solidarietà. Parole che forse non hanno (più) cittadinanza a sinistra.
  Antonio Socci

martedì 9 novembre 2010

HO LA MEMORIA CORTA, VOGLIO CAPIRE MEGLIO DOVE VORREBBE PORTARCI GIANFRANCO FINI, IL MIO DIARIO MI DICE ; ATTENTA !


Martedi 09 Novembre 2010
ASSEMBLEA CEI

La capacità di pensare e agire politicamente


È come sempre molto realista e franco il presidente della Cei. Ma nello stesso tempo non rinuncia al traguardo di una speranza operosa e radicata.

È realista e franco quando, “con apprensione profonda” afferma “il rischio che il Paese si divida non tanto per questa o quella iniziativa di partito, quanto per i trend profondi che attraversano l’Italia e che, ancorandone una parte all’Europa, potrebbero lasciare indietro l’altra parte”. Serve allora “uno scatto in avanti concreto e stabile verso soluzioni utili al Paese e il più possibile condivise”.

A partire dall’occupazione, per cui il presidente della Cei, aprendo l’assemblea dei vescovi, richiede di approntare, concordi parti politiche e sociali, “un piano emergenziale”.

Insomma, c’è da fare e si può fare. Anche perché, ribadisce il cardinale Bagnasco, “il tessuto connettivo della società italiana tiene nonostante le prove e le tensioni di una stagione non facile”. Ed, allora, bisogna aiutare questi processi, bisogna investire, ponendosi ragionevolmente la questione su “che cosa stiamo facendo per mantenere e ricostruire il patrimonio spirituale e morale indispensabile anche all’uomo post-moderno”.

Sono i famosi principi e valori “non negoziabili”, che il Papa instancabilmente proclama e con lui i vescovi italiani. C’è una “questione antropologica” di fondo, che deve avere risposte. Il cardinale Bagnasco, così come aveva fatto nella prolusione della Settimana Sociale, li rilancia nel loro nesso vivo e concreto; nella dialettica con una cultura dominante ormai stracca, diventano dei riferimenti per tutti. Sono di per sé “intrinsecamente dotati di una forza unitiva” e possono rappresentare la garanzia e la radice di percorsi concreti di speranza, un patrimonio prezioso per tutti coloro che si impegnano nell’investimento educativo, cui va una non formale “parola di fiducia, di incoraggiamento, di sostegno”. Qui peraltro la Chiesa ha scelto di impegnarsi in maniera ancora più esplicita, con gli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020.

A partire dalla Settimana Sociale e dagli Orientamenti pastorali, il presidente della Cei rilancia l’interlocuzione alta con tutto il Paese, e l’appello alle vocazioni all’impegno sociale e politico: “I cattolici non possono consegnarsi all’afasia, ideologica o tattica” e neppure al moralismo “esclusivamente declamatorio”. La risposta alla caduta di qualità della politica, “che va soppesata con obiettività, senza sconti e senza strumentalizzazioni”, è l’impegno.

Oggi più che mai è il tempo della “prudentia”, la virtù classica rilanciata e sistematizzata come cuore della politica da san Tommaso. È la capacità di articolare fini e mezzi, principi e arte di attuarli. Non è più il tempo delle retoriche. Lo dobbiamo in particolare ai giovani, di cui tanto si parla, ma che devono essere veramente messi in condizione di prendere la parola e mettersi alla prova del bene comune. 


Francesco Bonini




Lettere al direttore

9 novembre 2010

Il direttore risponde

Un rischioso futurismo familiare

Caro direttore,

le cito un passaggio dal discorso di Fini a Bastia Umbra: «...Bianchi e neri; cattolici, ebrei e musulmani; uomini e donne; eterosessuali ed omosessuali; italiani e stranieri: qualsiasi persona, la persona umana, senza distinzioni e discriminazioni, deve essere al centro dell’azione della politica e avere la tutela dei propri diritti...».

Poi, a seguire: «...In Italia dobbiamo colmare il divario e allinearci agli standard europei sulla tutela tra le famiglie di fatto e quelle tradizionali...». E infine: «... Non c’è in nessuna parte dell’Europa, e lo dico a ragion veduta, un movimento politico come il Pdl che sui diritti civili sia così arretrato...». Nel novero dei diritti civili da tutelare va certamente ricompreso, per Fini, il diritto delle coppie omosessuali ad adottare figli. Perché le coppie eterosessuali sì e quelle omosessuali no? Anche questo è un sacrosanto diritto! In nome degli standard europei bisogna poi equiparare in tutto e per tutto le famiglie di fatto alle vecchie, tradizionali e scontate famiglie fondate sul matrimonio. Che cosa aspettiamo ad adeguarci a questi standard?

Credere ancora nella famiglia fondata sul matrimonio è un chiaro sintomo di arretratezza culturale...
Fabio Russo, Roma
Capisco la sua amara ironia, gentile avvocato. E condivido la sua profonda perplessità: il «partito moderno» anzi «futurista» di Gianfranco Fini, ultima evoluzione della destra post-fascista faticosamente nata dalle ceneri del Msi Dn, sta rivelando di portare nel suo Dna qualcosa di strutturalmente e – per quanto ci riguarda – di inaccettabilmente vecchio: la pretesa radicaleggiante di dividere il mondo in buoni e cattivi, in arretrati e progrediti culturalmente, sulla base di una premessa e di un pregiudizio ideologico. Il ronzio di fondo che accompagna le dichiarazioni del leader ricorda, poi, le sicumere dell’anticlericalismo proprio, con le sue ambizioni e le sue miserie, di una certa Italia liberale in tutto e con tutti tranne che nei confronti dei cattolici.

L’accattivante elenco finiano di differenze da comporre in giusta armonia – che lei opportunamente cita, caro amico – culmina per di più in affermazioni che con il rispetto delle diversità nulla hanno a che vedere e che teorizzano, piuttosto, l’ingiusto annullamento delle diversità. Un retorico elogio della confusione, all’insegna del più piacione dei relativismi.

Nonostante l’ostentato (e sarkoziano) richiamo all’idea di una «laicità positiva».

Spiace, infatti, constatare che il primo a fare le spese lessicali e programmatiche del riproporsi di un Fini-pensiero purtroppo già noto sia stato l’istituto della famiglia costituzionalmente definita (articolo 29), cioè quella unita regolarmente in matrimonio e composta da un uomo e una donna e dai figli che hanno messo al mondo o accolto in adozione. Il neoleader di Fli e attuale presidente della Camera si mostra, insomma, pronto a ridurre la «famiglia tradizionale» a una possibilità, a una mera variabile in un catalogo di desideri codificati, manco a dirlo, secondo gli «standard europei». Bizzarro, deludente e rischioso argomentare che si somma all’altrettanto pericolosa scelta di campo che l’ha indotto a osteggiare una legge – quella sul «fine vita», approvata in prima lettura al Senato e ferma alla Camera – tesa a scongiurare la surrettizia e anti-umana introduzione di pratiche eutanasiche nel nostro ordinamento. Come potremmo non annotare e tenere in debita considerazione tutto questo? E, proprio guardando al futuro oltre che al presente, come potrebbero non tenerne conto con lucidità i potenziali interlocutori politici di Fini? (mt)

FACCIAMOCI UN PO' GLI AFFARI DI GIANFRANCO FINI.....SCOPRIREMO CHE TIPO DI UOMO E'. E..... QUANTO DI LUI CI SI PUO' FIDARE.

6°venerdì, 06 agosto 2010

IN VATICANO FINI NON PIACE, LE SUE PRECEDENTI ESTERNAZIONI SULL'EUTANASIA SONO NELLA MEMORIA DEI CATTOLICI !!!

lunedì, 16 agosto 2010

UN PEZZO DI PAOLO PANERAI,DA NON PERDERE, MOLTO CRITICO NEI CONFRONTI DI FINI, DI MONTEZEMOLO E DEL PRESIDENTE NAPOLITANO !!!