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sabato 9 luglio 2011

LA BUSSOLA QUOTIDIANA, DAL RISORGIMENTO AD OGGI....


ANTICLERICALISMO RISORGIMENTALE


a cura di Rino Cammilleri
09-07-2011
«Una volta erano i circoli ad essere attaccati e devastati (come il San Torpè a Pisa, nel ’69); un’altra i santommasini, i membri dei gruppi intitolati a San Tommaso d’Aquino, ad essere aggrediti, sbeffeggiati e insultati perfino in chiesa (come ad Ancona, nel gennaio del ’71); un’altra volta erano le processioni religiose ad essere disturbate o disperse. L’Eucarestia oltraggiata (come a Bologna nel giugno del ’73), o l’ostensorio rovesciato (come a Torino nel novembre), o le immagini di Maria prese a sassate (come a Gubbio nel marzo); altre volte erano le feste solenni, come il Venerdì Santo, ad essere profanate (il che avvenne a Torino nello stesso anno). (…) 


Contro le celebrazioni e i pellegrinaggi la reazione delle associazioni massoniche, democratiche e “luciferiane” era costante e inesorabile. Nel ’73, vagheggiandosi un omaggio dei cattolici locali alla tomba di San Francesco d’Assisi, un grande meeting al teatro della Minerva di Perugia minacciò reazioni violente se il governo non avesse impedito in tempo (e l’autorità non mancò di aprire gli orecchi e agire in conseguenza, proibendo il tutto). Poco più tardi, sia ad Assisi sia a Loreto, masse di fedeli accorse per le indulgenze furono disperse con le armi, da veri e propri battaglioni di fanteria coadiuvati dalla polizia e dai carabinieri (e il governo giustificò i provvedimenti con ragioni igieniche)». Vi sembra un pagina di Angela Pellicciari? No, è Giovanni Spadolini (L’opposizione cattolica, Mondadori 1994, pp. 70-71). LEGGI TUTTO

giovedì 31 marzo 2011

LA SCUOLA DOVEVA SOSTITUIRE LA CHIESA.......BEL RISORGIMENTO...


CHI SMETTE DI CREDERE IN DIO, INIZIA A CREDERE A TUTTO: AD ESEMPIO MAZZINI CREDEVA DI ESSERE LA REINCARNAZIONE DI UN EXTRATERRESTRE E GARIBALDI...

L'eroe dei due mondi (che definiva Pio IX ''un metro cubo di letame'', che non sopportava la Chiesa cattolica e la gerarchia, che considerava il Cattolicesimo una stupida superstizione) si fece iniziare alla magia ''egiziana'' e scrisse di esser riuscito a mettersi in contatto con le anime delle piante
da I tre sentieri
Il Risorgimento subì molto il fascino della magia. Non a caso.

Ogni qual volta si vuole propagandare il razionalismo, l'esito è sempre lo stesso: il dilagare dell'irrazionalismo.

E' tempo di celebrazioni per ricordare l'unificazione dell'Italia. Finanche nella kermesse sanremiana un noto comico ha dedicato il suo show a questo argomento, scadendo in una sorta di descrizione oleografica su modello sussidiario di scuola elementare anni '30.

Ovviamente siamo d'accordo sul fatto che l'Italia debba essere unita, piuttosto molto andrebbe detto su come si è realizzato questo processo. Potremmo dire: unificazione sì, Risorgimento no. E ciò perché alla base del Risorgimento vi fu una ben precisa filosofia che lo rese la traduzione italiana di quell'evento che è all'apice della modernità: la Rivoluzione francese. Il Risorgimento mirava ad una sorta di decattolicizzazione dell'Italia... e in parte è riuscito in questo intento. Ma, per approfondire questi argomenti, rimandiamo ad ottimi testi che trattano bene questa questione.

In particolar modo consigliamo i lavori di storici come Massimo Viglione e Angela Pellicciari.

Vogliamo invece dedicare questa circolare ad una caratteristica del Risorgimento italiano che solitamente è poco conosciuta, ovvero l'influenza di tematiche esoteriche ed occultistiche in coloro che sono stati definiti "padri della patria".

La conoscenza di questa caratteristica è importante da un punto di vista religioso perché ci fornisce un'altra conferma di ciò di cui siamo ampiamente convinti; ovvero che quando ci si allontana dalla vera e ragionevole religiosità si finisce non con l'essere scettici, agnostici o perfino atei... ma irrazionalisti e affascinati dalla magia. Proprio come ebbe a dire il grande Chesterthon: Quando l'uomo cessa di credere in Dio, inizia a credere in tutto.

Ciò ha una spiegazione antropologica e filosofica.

La spiegazione antropologica verte sul fatto che l'uomo ha sempre bisogno di una risposta al mistero della sua vita; per cui, quando si rifiuta di trovare questa risposta all'interno della ragionevole dimensione religiosa, finisce col trovarla all'interno dell'irragionevole dimensione magica.

La spiegazione filosofica verte invece sul fatto che il razionalismo, essendo il tentativo di includere il reale in un'illusoria capacità onnicomprensiva della ragione umana, poggia su una pretesa di rendere l'uomo artefice del reale stesso: esiste solo ciò che la ragione umana può conoscere completamente. Da qui la "simpatia" del razionalismo per la magia, essendo quest'ultima la pretesa di porre l'uomo al di sopra del sacro e del divino e quindi di renderlo fondamento immanente di tutto.

Ma veniamo ai fatti.

Il Risorgimento, per porsi come inizio di una nuova società e di una nuova era, aveva bisogno di una mitologia su cui fondarsi. Bisogno questo non nuovo nel corso della storia. Era già toccato alla Rivoluzione francese. Ancor prima alla Guerra dei Trent'anni, laddove il mito dei Rosa-Croce fu ideato a tavolino per dare alla Lega protestante un fondamento para-religioso. Ebbene, nel Risorgimento la fa da padrone il concetto mitico di segretezza. Segretezza che accomuna tanto la Massoneria, quanto la Carboneria e la stessa Giovine Italia. Tentativo di eludere il controllo poliziesco? Non solo. Le associazioni segrete avevano un proprio rituale, puntigliosamente elaborato e rispettato, che andava ben al di là di esigenze puramente di azione. Il filosofo tedesco Georg Simmel affermava, quasi in contemporanea al Risorgimento italiano, che il segreto era una delle più grandi conquiste dell'umanità. Ed un altro tedesco, Reinhart Koselleck, celebre storico dei concetti, ha sottolineato quanto l'idea di segreto sia servita alla realizzazione della modernità come categoria storica e filosofica. Segreto viene dal latino "secernere", che vuol dire "separare", "distinguere". Da qui l'agire segretamente per una trasformazione radicale, per la realizzazione di qualcosa che sia totalmente nuova, che sia separata e distinta da ciò che la precede. L'agire nel segreto come agire mitico per la costruzione di qualcosa che sia altrettanto mitica.

Ma questo tipo d'irrazionalismo può interessare fino ad un certo punto. Nel Risorgimento vi fu anche un irrazionalismo di carattere individuale.

Quanto spiritismo in Casa Savoia! E quanto spiritismo nella Torino sabauda! Massimo D'Azeglio perderà del suo tempo dietro ai "tavoli ballerini". Cavour stesso si farà protettore di molti spiritisti, fra cui Vincenzo Scarpa, suo celebre collaboratore. Quest'ultimo diventerà direttore di un periodico molto diffuso nella Torino del tempo, dal significativo titolo: "Gli annali dello spiritismo". Incarico prestigioso che non costituì ostacolo, anzi!...per una futura pluridecorazione da parte dello stesso Vittorio Emanuele II.

Per non parlare di Giuseppe Garibaldi. Il Nizzardo, che definiva Pio IX "un metro cubo di letame", che non sopportava la Chiesa cattolica e la gerarchia, che considerava il Cattolicesimo una stupida superstizione, si fece iniziare alla magia "egiziana", diventò "Grande gerofante" massonico e – dulcis in fundo - praticò la medianità nell' isola di Caprera. Nel suo scritto, Sull'arida terra di Caprera, scrisse di esser riuscito a mettersi in contatto con le anime delle piante, e che si stava sforzando di fare lo stesso per le anime delle farfalle...

C'è da perdere la stima un po' di tutti. Giuseppe Mazzini credeva fermamente di essere la reincarnazione di un extraterrestre. Anche lui riteneva che il Cattolicesimo fosse una stupida superstizione per ignoranti; e tutto questo non per un atteggiamento ateistico o scettico, ma per credere nella reincarnazione. Ma che reincarnazione! Egli diceva che non si potessero ricordare le vite precedenti perché ancora non si era giunti a vivere sul pianeta più in alto. Sarà solo allora che, potendo guardare in basso, così come si può fare da un ultimo piano di un palazzo, si potranno ricordare le vite precedenti. Scrisse testualmente: "Il viaggio dall'una all'altra esistenza si fa come intorno ad un'enorme piramide di modo che, pervenuti ad una certa altezza cominciamo a discernere il cammino percorso. Saliti al culmine, poi, lo si vede intero. Qui nella terra siamo in continuazione di viaggio provenienti da altri astri o pianeti. Non ce ne ricordiamo perché siamo ancora troppo in basso. Arrivati più in su, ad altre stelle, ci si scoprirà la spirale corsa e, gettandovi su l'occhio, ricorderemo il passato."

Ma questi due tipi di irrazionalismi si sono uniti per dare origine a quella società post-cristiana per la cui nascita anche – ma non solo - il Risorgimento ha dato il suo triste contributo. Un esempio? Si leggano queste parole che il giornalista-editore Ferdinando Martini scriverà a Giosuè Carducci. Sono parole al di sopra di ogni sospetto. E' un massone che scrive ad un altro massone, un risorgimentale ad un altro risorgimentale. "Dopo il male - scrive il Martini - che noi, tutti noi, caro Giosuè, abbiamo fatto siamo in grado di provvedere ai rimedi?

A chi predichiamo noi? Noi, borghesia volterriana, siamo noi che abbiamo fatto i miscredenti; ora alle plebi (...) ritorneremo a parlare di un Dio che ieri abbiamo negato? Non ci presterebbero fede; parlo delle plebi delle città e dei borghi, le quali di un Dio senza chiese, senza riti, senza preti non sanno che farsene. A tutto il male che noi - non tu ed io: noi come ceto - abbiamo fatto per spensierata superbia, le tombe sono troppo scarso compenso. La scuola doveva, nelle chiacchiere dei pedagoghi, sostituire la Chiesa. Bella sostituzione! Te la raccomando! (...)".

Dunque, il Risorgimento - così com'è avvenuto - ha dato un contributo alla sostituzione della tradizione del popolo italiano (radicata nel Cattolicesimo) con valori posticci, insoddisfacenti sul piano esistenziale e fallimentari su quello sociale.
Fonte: I tre sentieri, marzo 2011

mercoledì 9 marzo 2011

PER FESTEGGIARE I 150 ANNI RISCOPRIAMO IL RISORGIMENTO:CESARE BALBO UOMO DI SANI PRINCIPI,DOVE LI TROVIAMO OGGI POLITICI COSI' ?




Cesare Balbo





Balbo, l'Unità senza anticlericalismo


di Lorenzo Carlesso
05-03-2011

Uomo di pensiero, Cesare Balbo fu tra i principali esponenti del moderatismo italiano. Dai suoi scritti trassero ispirazione i leader della classe dirigente liberale, tra cui Cavour che trovò in Balbo un punto di riferimento per il suo programma. 



Cresciuto all’interno di un ambiente familiare caratterizzato da interessi culturali e idee liberali, il giovane Cesare seguì il padre, Prospero Balbo, ambasciatore del Regno di Sardegna, costretto all’esilio dopo l’occupazione francese del Piemonte a seguito della discesa di Napoleone in Italia. Rientrato a Torino, Balbo proseguì gli studi in forma privata e fondò con un gruppo di amici l’Accademia «dei Concordi». All’interno del circolo venne in contatto con gli ideali patriottici ed elaborò inoltre le prime tesi del successivo movimento neoguelfo. Costretto ad entrare nell’amministrazione napoleonica, prestò servizio a Firenze al seguito del generale Jacques François Menou, governatore generale della Toscana. Successivamente fu trasferito prima a Parigi come auditore al Consiglio di Stato e poi a Lubiana, dove lavorò nell’amministrazione del nuovo dipartimento illirico. 


Dopo la caduta dell’impero napoleonico entrò a far parte dell’esercito piemontese, prestando servizio prima a Madrid, al seguito del padre reintegrato nella carica di ambasciatore, e poi a Genova. La carriera del padre, culminata con la nomina a ministro degli Interni, consentì a Cesare di assistere da vicino alle convulse giornate dei moti del 1821. Schierato a favore di una riforma liberale dello Stato, Prospero Balbo chiese all’erede al trono Carlo Alberto di promulgare la Costituzione. La richiesta, prima accolta e poi sconfessata dal principe su ordine del sovrano Carlo Felice, compromise il ruolo di Prospero ed ebbe ripercussioni su quello del figlio, condannato al confino. Amareggiato dagli eventi accaduti, ma non per questo intenzionato a rinunciare ai propri ideali, Cesare Balbo lasciò la vita pubblica per dedicarsi allo studio della storia, disciplina per la quale aveva già manifestato evidenti interessi.



Negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo pubblicò varie opere tra cui una Storia d’Italia in due volumi, una traduzione degli Annali di Tacito ed una Vita di Dante. La pubblicazione del Primato, scritto dall’amico Gioberti, spinse Balbo a prendere posizione. Nel 1844 pubblicò a Parigi Le Speranze d’Italia, opera con la quale illustrava ai lettori il programma dei moderati. Egli proponeva una federazione di Stati sotto la presidenza dei Savoia e non del Papa, la fine dell’influenza austriaca da raggiungere attraverso un accordo diplomatico che consentisse al governo di Vienna di rinunciare alle province italiane in favore di una sua espansione nei Balcani, il rispetto della religione, la creazione di una lega doganale in grado di migliorare gli scambi commerciali.



Scriveva Balbo a proposito della nuova compagine statale: «Le confederazioni sono l’ordinamento più conforme alla natura ed alla storia d’Italia.
L’Italia, come avverte molto bene il Gioberti, raccoglie da settentrione a mezzodì provincie e popoli quasi così diversi tra sé, come sono i popoli più settentrionali e più meridionali d’Europa; ondeché fu e sarà sempre necessario un governo distinto per ciascuna di tutte o quasi tutte queste provincie». Il successo dei suoi scritti consentì a Balbo di riprendere la vita politica. Nel novembre del 1847 fondò con Cavour Il Risorgimento, il giornale dei moderati che si batté in particolare per la concessione dello Statuto albertino e per l’unificazione italiana, da realizzarsi sotto la guida del Piemonte. Nel marzo del 1848 fu incaricato da Carlo Alberto di formare il nuovo governo, carica che mantenne fino al mese di luglio.



Dimessosi dalla presidenza del Consiglio a seguito della sconfitta di Custoza, ricoprì la funzione di deputato, schierandosi a difesa del potere temporale dei papi e contro la proposta del governo d’Azeglio per l’abolizione del foro ecclesiastico e l’incameramento dei beni della Chiesa da parte dello Stato. Prendendo la parola in aula disse che «non si può, non si deve mutare [un diritto], se non col consenso, con l’accordo di chi ne è materialmente in possesso». In un’altra occasione si oppose ad una proposta di legge sull’istituzione del matrimonio civile. Morì a Torino, città nella quale era nato, il 3 giugno 1853, all’età di sessantatre anni.
Fedele ai propri convincimenti, preferì lasciare il potere piuttosto che venir meno alla parola data.



Da cattolico liberale auspicò una proficua collaborazione tra l’autorità civile e quella religiosa, ricordando agli italiani come «sia necessità non trista, ma lieta, necessità che si congiunge con tutti i destini più lieti, più grandi della nostra patria;
che l’Italia, prescelta a sedia del capo, a centro della Cristianità, sia interessata non solamente alla indipendenza, ma alla dignità, allo splendore, alla potenza di quel capo; che non solamente l’albergarlo, ma il difenderlo e glorificarlo sia il gran destino d’Italia ne’secoli futuri».

venerdì 25 febbraio 2011

CONOSCIAMO MEGLIO I PERSONAGGI DELL'UNITA' D'ITALIA....


RISORGIMENTO DA RISCRIVERE



Giuseppe Garibaldi massone




Baima Bollone e i padri della


patria occulta



di Marco Respinti
25-02-2011


I protagonisti del Risorgimento? Una bella congerie di spiritisti, occultisti e massoni. Ovvio poi che a 150 anni di distanza la “questione cattolica” non sia ancora appianata. I Padri della patria, infatti, dai più remoti agli ultimi in ordine di tempo, coltivavano idee sul mondo agli antipodi di quelle predicate della Chiesa e diffuse nel popolo. A documentare questo volto insolito della storia nazionale, una vera e propria altra faccia della medaglia, è Pierluigi Baima Bollone nel libro, Esoterismo e personaggi dell’Unità d’Italia. Da Napoleone a Vittorio Emanuele III (Priuli e Verlucca editore, Borgaro Torinese [Torino]).

73 anni, medico chirurgo, Baima Bollone è professore emerito di Medicina legale nell’Università di Torino. Membro della Conferenza Comitati Etici della Regione Piemonte, è autore di un famoso Manuale di Medicina legale(giunto alla quinta edizione) adottato in vari atenei italiani e di 163 pubblicazioni e relazioni scientifiche. Ai più è noto però per i preziosi studi sulla Sindone, legati soprattutto all’identificazione delle tracce di sangue sul sacro lino. Pubblicista, è autore di 26 saggi, spesso tradotti anche all’estero, più altri pubblicati direttamente in Paesi stranieri, su temi diversi, fra cui o Il mistero della Sindone (2006), Il romanzo della criminologia (2007), Cesare Lombroso e la scoperta dell’Uomo delinquente (2009) e Sindone. Storia e scienza (2010).

Parte infatti dalla sua lena di ricercatore instancabile e dalla sua certosina attenzione per il dettaglio medico-scientifico l’indagine sull’aspetto occulto del Risorgimento. Curiosando e girovagando nel mondo dei collezionisti ma anche dei rigattieri (nel libro ve n’è ampia documentazione fotografica), Baima Bollone si è infatti costantemente imbattuto in reperti, cimeli e segni che parlano una linngua diversa da quella un po’ oleografica affidata ai libri di scuola. Peraltro sfondando porte aperte, dice l’autore di Esoterismo e personaggi dell’Unità d’Italia, poiché da un lato nell’Ottocento l’occultismo era una moda assai diffusa tra i ceti sociali più elevati, dall’altro perché tutte le notizie che egli ha raccolto e ordinato nel libro sono da tempo facilmente rinvenibili nelle biografie dei personaggi presi in esame. Solo che nessuno le aveva mai messe prima in riga, secondo un criterio ragionato.

Tutto prende le mosse da Napoleone Bonaparte. L’argomento del libro, infatti, non è tanto il Risorgimento, secondo il concetto cronologicamente un po’ riduttivo che si è usi dare al termine, bensì l’Unità d’Italia. E, afferma l’autore, è innegabile che l’Unità d’Italia inizi fuori dall’Italia con un non italiano, appunto il futuro “imperatore dei francesi”, che con la battaglia di Marengo, combattuta in provincia di Alessandria nel giungo 1800, innescò il processo che porterà all’unificazione politica della Penisola e che poi nel 1805 proclamò il primo regno d’Italia (durato fino alla disfatta finale del “grande còrso” nel 1814), peraltro nato dalle ceneri della prima Repubblica Italiana proclamata a Lione nel 1802. E proprio Napoleone dà il la al volto occulto della storia unitaria dello Stivale, facendosi, scrive Baima Bollone, iniziare alla massoneria probabilmente «durante la campagna d’Egitto a Menfi nel 1798», lui che a Il Cairo forse cofondò pure «la loggia Iside del rito di Memphis-Misraïm».

Da lì in poi l’Italia è quindi tutta un gran fiorire di sètte e di camarille vere o presunte, vale a dire seriamente animate da intenti sovversivi così come semplicemente speranzose di farlo ma senza pane per i denti o denti per il pane. Massoni regolari e massoncelli di frangia, spiritisti di varie obbedienze e mesmeristi assortiti, sincretisti e teosofi, Illuminati di Baviera (ecco un caso esemplare di “vorrei ma non posso”) e precursori del Divino Otelma, semplici giocolieri o Houdini da strapazzo annebbiano infatti lo scenario. Soprattutto perché non si riesce mai capire dove finiscano gli iniziati davvero votati a brutte intenzioni (pochi, ma pericolosi) e incomincino invece i venditori di aspirapolveri (un numero stragrande calcò la Penisola).

Ricolma di ninnoli e di simboli vuoi neopagani, vuoi paraclassici, vuoi orientaleggianti, l’Italia descritta da Baima Bollone si fa così una insalata russa da pre-New Age che fu il gran passatempo degli snob, ma che al contempo influenzò e non poco le élite che fecero il Risorgimento. Alla meglio si mescolarono fede cattolica ed esotismi, devozione ed esoterismi in un clima spirituale non migliore per l’Italia in costruzione. Da notare, e in questo Baima Bollone guida il lettore da vero maestro, pure le nozze alchemiche fra occultismi e positivismi scientisti che vi si celebrarono apertamente, di primo acchito una contraddizione in termini e in realtà una coppia di fatto costante dell’intera Modernità. Come se per far la guerra al Dio dei cattolici (d’Italia si sta infatti parlando) andasse bene tutto, dall’adorazione tecnocratica della locomotiva a vapore ai fantasmi richiamati dai tavolini traballanti.

Così, mentre il cantore patrio Giosue Carducci intonava l’Inno a Satana invocando il principe degl’inferi per vendicar la “ragione filosofica” vilipesa dalla religione dei Papi, un Cesare Lombroso determinava meccanicisticamente la patologia spirituale dei criminali solanto rimirandone il grugno e una medium controversa come Eusapia Palladino incantava lui e molti altri.

E il conte di Cavour, un altro “straniero” (parlava più francese che italico), ebbe l’idea di ritagliarsi un Vangelo fai-da-te detestando la Chiesa e favorendo la massoneria a cui però non aderì, troppo religiosa, come invece fece volentieri Costantino Nigra. «Certo è - scrive Baima Bollone - che poco dopo la morte si diffonde la notizia che lo scomunicato Cavour ha chiesto di confessarsi, di ricevere l’eucarestia dei moribondi e soprattutto ha voluto rendere pubblico di essere morto da cattolico come sempre era vissuto. Qualora ciò corrispondesse a realtà, con questa dichiarazione terminale Cavour avrebbe sconfessato e rinnegato tutta la sua attività politica».

Dibattuto fra protestantesimi e deismo fu Giuseppe Mazzini, a cui garbava molto lo spiritismo e che forse forse pensava esistessero persino gli extraterrestri: con fermezza, comunque, credeva nelle reincarnazione e ammirava la teosofia di Helena Petrovna Blavatsky (a cui, per la cronaca, dobbiamo molto di quel che crediamo di sapere sui continenti sprofondati negli oceani e che pure ammaestrò il Mahatma Gandhi). La quale madama Blavatsky ricambiava di cuore, sinceramente  ammaliata qual' era da Mazzini e Giuseppe Garibaldi [nella foto, in panni massonici]. L’“eroe dei due mondi”, del resto, era massone del rito “egiziano” tra i più incalliti anticristiani e tra i più indomiti anticlericali. Un dì Garibaldi si comperò pure una “cintura elettrica”, l’ultimo ritrovato nella tecnica per conferir rinnovato vigore ai lombi stanchi e far sorridere le signore, in realtà una bufala cosmica in cui cascarono al tempo frotte di creduloni cultori della religione pseudoscientifica del materialismo.

E siccome tutte le preghiere finiscono in gloria, la patria storia occulta porta diritti ai socialismi e ai fascismi che nell’età postunitaria compirono il Risorgimento anche in fatto di esoterismi. Il massone Arturo Reghini, non sconosciuto a certa “destra”, «nel 1924 pone i “santi” Mazzini e Garibaldi alla testa ideale “di ‘un partito imperialista e laico, pagano e Ghibellino’ capace di contrapporsi alla Chiesa romana cristiana, madre di tutti gli internazionalismi liberal-democratici e socialisti”».

I Savoia? Vittorio Emanuele II fu un gran superstizioso e la regina Margherita «è brillante e curiosa, aperta alle esperienze culturali e portata all’occultismo. Desidera “sapere bene” che cosa vi sia nell’Aldilà».

C’è come il sospetto che qualcuno abbia voluto approfittarsi del Risorgimento. Secondo il medico Baima Bollone in diversi casi si è di fronte a personalità disturbate, persino multiple, insomma patologiche. Era proprio così che fatta l'Italia dovevano essere fatti gli italiani?

martedì 22 febbraio 2011

SOCCI RINGRAZIA BENIGNI E .....BONARIAMENTE LO CORREGGE.

Ma ci voleva un comico per farci sentire un popolo?

 di Antonio Socci 19 FEBBRAIO 2011 
Roberto Benigni merita un grande “grazie!”. Certo, alcune baggianate le ha dette nella sua performance al festival di Sanremo.
Per esempio, se ho ben capito (perché affastellava argomenti con un eloquio sovraeccitato) ha detto che fu Mazzini, nel 1830, a inventare il Tricolore. E’ una sciocchezza.
Chissà come gli è venuta in mente: il Tricolore fu concepito da Luigi Zamboni e Giambattista De Rolandis, a Bologna nel 1794 (l’ho raccontato di recente su queste colonne). E fu poi ripreso – come tutti sanno – dalla Repubblica Cispadana nel 1797. Mazzini non era neanche nato.
Suggestivo è il riferimento benignesco alle origini del Tricolore dalla Divina Commedia (Purg. XXX, 30-33), ma purtroppo l’attore toscano ignora che i colori bianco, rosso e verde del vestito di Beatrice indicano le tre virtù teologali, Fede, Speranza e Carità e così il riferimento dantesco rimane monco.
Qualcuno poi dovrà spiegare a Bossi e alla Lega che il Tricolore nasce dallo stendardo della Lega lombarda (la croce rossa in campo bianco che proveniva dalle crociate) e che l’unità d’Italia è in gran parte un’ “impresa padana”. 
Ma chissà se ascolteranno.
Per tornare a Benigni, ci sono poi le gaffe dovute all’ingarbugliamento verbale del comico, come quando ha detto che la cultura italiana esisteva prima della nazione: una cosa senza senso, chissà perché rilanciata dai tg come una geniale idea.
In realtà intendeva dire che la nazione e la cultura italiane esistevano prima dello Stato unitario (che è sorto appunto nel 1861).
Era uno spunto bello – quello della cultura italiana che precede lo Stato – che sarebbe stato da approfondire. Peccato che l’abbia lasciato cadere.
E peccato che l’orazione civile di Benigni abbia celebrato un Risorgimento da scuola elementare di cento anni fa.
E’ stato un alluvione di retorica da piccola vedetta lombarda. Ha narrato una favoletta piena di eroi giovani e forti (che sono morti) assai lontana dalla realtà dei fatti.
Non c’è stato nemmeno il sentore delle zone d’ombra, degli errori e pure degli orrori della “conquista piemontese”.
Detto questo credo che Benigni sia stato grande e abbia fatto comunque una grande cosa.
Prima di tutto per la sua emozione e la sua commozione che ci hanno toccato il cuore e che ci hanno fatto sentire come nostro perfino un inno nazionale improbabile e per certi aspetti imbarazzante.
Il caso Benigni è emblematico. Nessuno ha riflettuto su quanto sia singolare che a un comico sia di fatto affidata l’unica vera celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia (in effetti la performance di Benigni a Sanremo era più attesa dei discorsi ufficiali del presidente Napolitano).
In realtà c’è una ragione profonda. E’ data dal fatto che, dopo il fascismo, che ridusse l’amor di patria a una macchietta comica prima e tragica poi (per il nazionalismo, il colonialismo e la catastrofe bellica), le sole due modalità che gli italiani, nel cinquantennio repubblicano, si sono concessi per essere patriottici sono state il calcio (lo stadio, dove giocava la Nazionale, è diventato l’unico posto dove sventolavamo il Tricolore) e la comicità (vedi “La grande guerra” interpretata da Gassman e Sordi, per fare un esempio).
Il registro comico ci permette infatti di dirci che siamo fieri di essere italiani (specie col mito “italiani brava gente”), ma con un sorriso rassicurante, col sottinteso cioè che non ci prendiamo troppo sul serio e nessuno si sogna più di emulare la Roma imperiale: infatti gli italiani possono essere solo “eroi involontari”, proprio come Gassman e Sordi in quel capolavoro di Monicelli.
Anche il palcoscenico della celebrazione di Benigni era emblematico: il festival di Sanremo e la Tv.
Emblematico perché (primo) Festival e Tv sono il tempio del sentimento nazional-popolare, (secondo) perché rientrano perfettamente nello stereotipo più diffuso e banale – gli italiani spaghetti e mandolino – e (terzo) perché confermano perfino lo stereotipo colto per il quale – in fin dei conti – la nostra arte e la nostra cultura ci fanno da duemila anni il cuore del mondo (del resto  il Festival si vanta di essere “la musica italiana”).
C’è un’altra piccola rivoluzione memorabile compiuta da Benigni: per un cinquantennio la parola “patria” è stata un tabù per la Sinistra comunista e per la cultura ufficiale. Bastava pronunciarla per essere accusati di fascismo.
Non solo. I comunisti avevano certamente dato un grandissimo contributo alla liberazione del Paese dal nazifascismo, nella guerra partigiana, però il Pci era asservito a Stalin, a una potenza straniera minacciosa e nemica dell’Italia.
Per capire cosa significa ciò bisogna ricordare che nel momento più drammatico dello scontro fra mondo libero e Urss, attorno al 1948-1949, quando l’Armata Rossa si stava divorando mezza Europa, asservendo decine di Stati dell’Est europeo e arrivando fino a Trieste con mire fameliche e aggressive, uno come Enrico Berlinguer – il migliore di quel campo (a quel tempo leader della Fgci) – affermava che in caso di guerra i giovani non avrebbero combattuto contro l’Armata Rossa.
Fece indignare lo stesso De Gasperi che gli rispose di persona, con un suo duro discorso (il legame del Pci con l’Urss è durato a lungo: perfino i finanziamenti sovietici sono arrivati fino alla fine degli anni Settanta).
Ancora negli anni Ottanta – nella decisiva vicenda degli euromissili (che poi porterà tali cambiamenti a Mosca da provocare il crollo del comunismo) – il Pci, anziché schierarsi con la Nato per far fronte alla minaccia dei missili sovietici puntati sull’Europa, scelse un “pacifismo” che di fatto significava non difendere gli interessi nazionali e avvantaggiare l’Urss (chissà se il presidente Napolitano ricorda…).
Ciò detto che oggi si possa parlare di “patria” senza più i tabù ideologici del passato, come ha fatto Benigni, è una gran bella cosa. Che tutti insieme ci si possa riconoscere nel nostro passato e nel nostro Paese, come una sola famiglia è meraviglioso.
Tanto più in questo anniversario dei 150 anni dell’unità nazionale, nel quale il Paese sembra dilaniato dagli odi e il disprezzo reciproco quasi rende impossibile riconoscersi come un solo popolo.
Benigni si è trovato a svolgere un ruolo che non dovrebbe essere affidato a un attore, specialmente a un attore comico, ma ha trovato nella propria religiosità il modo per cantare un inno che ci ha unito e che nessuno avrebbe potuto restituire con eguale semplicità. Per qualche minuto sugli odi e sul disprezzo reciproco ha prevalso in tutti la sensazione di essere un popolo. E ha prevalso l’amore per quella cosa bellissima che si chiama Italia.


lunedì 14 febbraio 2011

PERCHE' NOI ITALIANI SIAMO DEFINITI "AZZURRI" ? UN PO' DI STORIA CON ANTONIO SOCCI !

Quando la Madonna indossò il Tricolore…

di Antonio Socci  13 FEBBRAIO 2011 
Gli italiani sono “gli azzurri”. Nessuno sa che con i 150 anni dell’Italia unita, si festeggiano anche i 100 anni dell’ “azzurro” come colore nazionale. Viene dall’iconografia mariana e la dinastia sabauda ne fece un suo simbolo.
Scrive Luigi Cibrario, storico della monarchia: “quel colore di cielo consacrato a Maria è l’origine del nostro color nazionale”. 
Tutto cominciò il 21 giugno 1366. Amedeo VI di Savoia salpa da Venezia per la Terra Santa, per la crociata voluta da papa Urbano V e sulla sua nave ammiraglia – accanto al vessillo dei Savoia – fa sventolare uno stendardo azzurro con una corona di stelle attorno all’ immagine della Madonna, per invocare “Maria Santissima, aiuto dei cristiani”.
L’azzurro di quel vessillo mariano fu ripreso da alcuni cavalieri sabaudi che, in onore alla Santa Vergine, cinsero delle sciarpe azzurre sull’uniforme.
Ne nacque una tradizione, fra gli ufficiali savoiardi. L’azzurro entrò a far parte dei simboli dinastici e il 10 gennaio 1572, con Emanuele Filiberto, la sciarpa azzurra diventò ufficialmente parte dell’uniforme. E poi dell’araldica del Regno d’Italia.
Pare che sia diventato il nostro colore ufficiale nelle competizioni sportive, per la prima volta, a Milano, il 6 gennaio 1911, per la partita di calcio Italia-Ungheria: quindi cento anni fa.
La piccola storia di questo simbolo fa capire che la tradizione cattolica impregna totalmente la storia italiana. D’altra parte il Regno dei Savoia è sempre stato cattolicissimo.
Con la restaurazione fu l’unico regno italiano, insieme allo Stato pontificio, ad abolire il Codice napoleonico: “la dinastia sabauda” scrive De Leonardis “aveva dato alla Chiesa cinque beati e vantava titoli di fedeltà al Cattolicesimo che fino al 1848  erano forse superiori a quelli dei Borbone e degli Asburgo; a differenza di questi ultimi i sovrani sabaudi non si erano compromessi con le idee illuministe e massoniche”.
Sarà l’ultimo re d’Italia infine a donare alla Chiesa la più preziosa delle reliquie: la Sindone.
Che l’unificazione d’Italia sotto il re sabaudo – con Cavour – abbia preso la forma di un conflitto contro la Chiesa è una di quelle tragedie storiche che probabilmente nessuno volle in maniera deliberata.
Basti pensare che il Regno sabaudo nel suo Statuto proclamava il Cattolicesimo come sua religione ufficiale. E poi c’è anche il cattolicesimo di molti patrioti (come il Pellico) e infine il fatto che lo stesso Pio IX era un entusiastico sostenitore dell’unificazione nazionale (per via federale).
Non solo quando fu eletto, con il Motu proprio “Benedite, Gran Dio, l’Italia”, quando il nome del Pontefice veniva invocato dai patrioti (ed erroneamente costoro pretesero di trascinare il Papa a far la guerra all’Austria: da qui il no e la rottura).
Pio IX restò legato all’ideale dell’Italia sempre, anche nel pieno del conflitto risorgimentale. E questo è un aspetto quasi sconosciuto.
Come i cattolicissimi Savoia, anche il Papa visse un drammatico conflitto interiore fra il dovere di difendere la Chiesa – che veniva aggredita e spogliata dal nuovo Stato – e la sua personale simpatia per la causa nazionale.
Un giorno un conte germanico in visita al Santo Padre gli manifestò il suo sdegno per l’aggressione in corso ai danni dello Stato Pontificio e della Chiesa, e, dopo averlo ascoltato, Pio IX mormorò ai suoi: “Questo bestione tedesco non capisce la grandezza e la bellezza dell’idea nazionale italiana”.
Errori tragici ve ne furono da entrambe le parti. E certamente l’idea di unificare l’Italia non per via pacifica e federale come prospettava il Papa, ma per via militare e sotto una sola dinastia fu devastante anche per il meridione d’Italia, dove da secoli governava una monarchia legittima quanto quella sabauda.
Ben ventidue anni fa, nel 1988, quando ancora non era emersa la Lega Nord, scrissi un libro di denuncia contro il Risorgimento come “conquista piemontese” e – curiosamente – fu pubblicato dalla Sugarco di Massimo Pini, un editore molto vicino al garibaldino Bettino Craxi. Il libro – riedito sei anni fa col titolo “La dittatura anticattolica” uscì quando nessuno metteva in discussione il Risorgimento.
Oggi che – al contrario – è diventata una moda, vorrei sommessamente dire il mio “Viva l’Italia!” e penso che si debba festeggiare il 17 marzo.
Per noi cattolici c’è comunque qualcosa di provvidenziale nel Risorgimento italiano (anche nella fine del potere temporale dei papi, come ebbe a dire Paolo VI), perché Dio sa scrivere diritto anche sulle righe storte degli uomini.



E infine ha fatto salvare l’indipendenza, l’unità e la libertà dell’Italia proprio ai cattolici e al Papa, il 18 aprile 1948, a cento anni esatti dalla preghiera per l’Italia di Pio IX.
Del resto il cattolicesimo era il solo cemento degli italiani. Infatti cosa li univa nell’Ottocento? La lingua no.
Nel 1861 gli italiofoni erano solo il 2,5 per cento della popolazione, perlopiù toscani (gli stessi Savoia a corte parlavano francese).
Nemmeno l’economia li univa: la Sicilia era più integrata economicamente all’Inghilterra che alla Lombardia e il Piemonte più alla Francia che alla Sicilia.
Ciò che univa il Paese erano Roma e le tradizioni cattoliche. Tanto è vero che il poema della risorgente nazione italiana fu il poema della Provvidenza, “I promessi sposi” del cattolicissimo Manzoni.
E fu deciso “a tavolino” che la lingua italiana fosse, da allora, quella della Divina Commedia dantesca, cioè il più grande poema mistico e addirittura liturgico della storia della Chiesa.
Perfino il tricolore adottato dai Savoia – nato apparentemente ghibellino – è intriso di tradizione cattolica.
Lo studente bolognese Luigi Zamboni, che col De Rolandis lo concepì nel settembre 1794, nell’entusiastica attesa dell’arrivo napoleonico che avrebbe liberato dal giogo dello Stato pontificio, partì dallo stemma di Bologna, quella croce rossa in campo bianco che viene dalle crociate e dalla Lega lombarda (a cui Bologna appartenne). Al bianco e rosso lui aggiunse “il verde”, che – disse – era “segno della speranza”.
In effetti simboleggiava la speranza nella tradizione cattolica, come virtù teologale, insieme alla fede, che aveva come simbolo il bianco, e alla carità (il rosso).
Non a caso il primo “bianco, rosso e verde” lo troviamo proprio nella Divina Commedia, sono i vestiti delle tre fanciulle che, nel Paradiso terrestre, accompagnano Beatrice e che simboleggiano appunto le virtù teologali (Purg. XXX, 30-33).
Lo stesso “mangiapreti” Carducci, che certo non era ignaro di Dante, né di dottrina cattolica, nel suo discorso ufficiale per il primo centenario della nascita del Tricolore, a Reggio Emilia, dà, a quei tre colori, proprio il significato della Divina Commedia (fede, speranza e amore, sia pure in senso laico).
E’ ovvio che la Chiesa sia intimamente legata a questa terra “onde Cristo è romano” e pare evidente la missione religiosa dell’Italia (sembra che la parola I-t-a-l-y-a in ebraico significhi “isola della rugiada divina”).
Nessuno però sa che è stata addirittura la Madonna in persona a “consacrare” il tricolore nell’importante apparizione del 12 aprile 1947 a Roma, alle Tre Fontane, a Bruno Cornacchiola (il mangiapreti che si convertì).
Era un fanciulla di sfolgorante bellezza e indossava un lungo abito bianco, con una fascia rossa in vita e un mantello verde.
Consegnò al Cornacchiola un importante messaggio per il Santo Padre. E poi alla mistica Maria Valtorta spiegò che apparve “vestita dei colori della tua Patria, che sono anche quelli delle tre virtù teologali, perché virtù e patria sono troppo disamate, trascurate, calpestate, ed io vengo a ricordare, con questa mia veste inusitata, per me, che occorre tornare all’amore, alle Virtù e alla Patria, al vero Amore”.
Aggiunse che era apparsa a Roma perché “sede del papato e il Papa avrà tanto e sempre più a soffrire, questo, e i futuri, per le forze d’Inferno scagliate sempre più contro la S. Chiesa”.
Aggiunse che apparve per la terribile minaccia del “Comunismo, la spada più pungente infissa nel mio Cuore, quella che mi fa cadere queste lacrime”.
Essa è “la piovra orrenda, veleno satanico” che “stringe e avvelena e si estende a far sempre nuove prede”, una minaccia “mondiale, che abbranca e trascina al naufragio totale: di corpi, anime, nazioni”.
Era in effetti il 1947. L’Armata Rossa stava marciando su mezza Europa, fino a Trieste. E l’Italia il 18 aprile 1948 si salvò solo per l’impegno del papa e della Chiesa, da cui venne alla patria uno statista come De Gasperi, che salvò la libertà e così compì davvero il Risorgimento.

lunedì 25 ottobre 2010

LA VERITA' SCOMODA SUL RISORGIMENTO, POCHE SONO LE VOCI CHE OSANO ALZARSI PER SOLLEVARE I VELI...............

Io non ci sto, voglio raccontare tutti i misfatti del Risorgimento

di Domenico Bonvegna

Qualche giorno fa il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, come gli capita spesso in questi mesi, fa discorsi con riferimenti espliciti al Risorgimento, non mancando di incensarlo in continuazione.
Mi ha colpito una sua frase, "dobbiamo liberare l'unità d'Italia dal revisionismo". Napolitano non poteva essere così esplicito e preciso.
In questi mesi di preparazione ai festeggiamenti dei 150 anni dell'unità d'Italia mi sembra che anche in certi ambienti di centrodestra si raccomanda di non calcare troppo la mano contro i cosiddetti padri della patria vedi Cavour, Vittorio Emanuele, Garibaldi, Mazzini e soprattutto ci dicono che mettendo in discussione il periodo risorgimentale si rischia di sfasciare tutto e di remare a favore delle contrapposizioni qualunquistiche, di un certo meridionalismo becero e rivendicazionista, e soprattutto di favorire la politica del secessionismo di matrice leghista.
Allora oggi noi che cosa possiamo fare dopo 150 anni? Cancellare l'unità d'Italia? Certamente no. E' stata fatta, ce la teniamo, detto questo però vogliamo raccontare la Verità: come è stata fatta e soprattutto contro chi è stata fatta.
E' paradossale che proprio ora dopo la caduta del Muro di Berlino, e finalmente liberi da quegli schemi ideologici che ci hanno tenuti legati almeno per tutto il periodo della guerra fredda, proprio ora che il muro della leggenda risorgimentale comincia a presentare vistose crepe, anche se ancora permane purtroppo nei testi scolastici, ora che è possibile finalmente raccontare la Vera Storia del cosiddetto risorgimento, mi devo stare zitto o almeno soprassedere su quelle pagine oscure che potrebbero cancellare l'oleografia creata ad arte dai cosiddetti storici di professione e che naturalmente ora non vogliono che si metta in discussione. Questi storici mi sembrano come queicani da guardia che definiscono la 'storia patria' e che vigilano pronti a stroncare ogni tentativo 'revisionista'.
Ecco io a questo gioco non ci sto, quando posso cercherò sempre in tutti i modi di raccontare quello che so, che ho studiato, che mi hanno raccontato. La mia conoscenza dell'altra storia è iniziata negli anni della mia adolescenza, leggendo il bellissimo libro di Carlo AlianelloLa Conquista del Sud, edito dalla coraggiosa casa editrice Rusconi di Milano. Dalla lettura di questo libro e poi di tanti altri, soprattutto quello di Patrick Keyes O' Clery, La Rivoluzione Italiana, edito in Italia per la prima volta da Ares di Milano, un corposo scritto di ben 780 pagine, l'autore irlandese l'ha scritto in due tempi nel 1875 e nel 1892. Una lettura utile obiettiva, che non riduce la Storia a un complotto, e se condanna il modo di unificazione dell'Italia da parte di una ristretta èlite liberale, lo fa sempre presentando le fonti risorgimentali, liberali. Come fa del resto anche la storica Angela Pellicciari, in particolare nel libro Risorgimento da riscrivere.
Ma oltre ai libri, non posso non ricordare la grande influenza che ha avuto su di me l'opera catechizzante di Alleanza Cattolica che oltre a essere un'agenzia volta a far conoscere il magistero sociale della Chiesa, lavora per fare un'opera di controstoria, soprattutto degli ultimi duecento anni.
Leggendo e ascoltando insigni storici ho scoperto con grande sorpresa che quello che mi avevano raccontato fin dalla scuola elementare spesso erano favole da refezione scolastica, come ha ben scritto Giovanni Cantoni nella prefazione al libro Rivoluzione e Controrivoluzione. Nessuno mi aveva mai raccontato la Verità sul risorgimento: che l'unità d'Italia è stata fatta per cancellare l'identità cattolica del popolo italiano, della Chiesa Cattolica. Già nel 1848 inizia la persecuzione contro la Chiesa con la soppressione degli ordini religiosi. Che il Piemonte era uno strumento in mano alle lobby massoniche che lottavano per "unire""fare" gli italiani secondo i principi liberali e massonici.
Per fare questa unità culturale prima occorreva conquistare e annientare tutti i regni italiani, a cominciare da quello del Regno delle due Sicilie, uno stato millenario, che Vittorio Emanuele II, definito re 'galantuomo' ha aggredito senza nessuna giustificazione uno Stato sovrano, per giunta cercando di giustificarsi con la falsa teoria che i popoli meridionali hanno chiesto aiuto, il famigerato grido di dolore, tra l'altro mai levatosi. Gli inglesi approntarono una campagna diffamatoria, basata su calunnie diffuse in tutta Europa a danno dei Borboni e delle Due Sicilie, dipingendo gli uni come tiranni spietati e i loro sudditi come popoli semibarbari. Bisognava fare terra bruciata attorno al nemico. Più avanti lo stesso Gladstone, primo ministro inglese, confessò di essersi inventato tutto. "Si doveva far passare il piano eversivo di pochi uomini senza scrupoli, prezzolati dallo straniero, quale spontanea rivolta popolare. Far passare per epiche battaglie delle pallide scaramucce che consentirono a una masnada male assortita di banditi, ladri ed ex galeotti, di impadronirsi di un magnifico regno quasi senza far uso delle armi se non nella fase finale della conquista. Tra l'altro tutto questo, sarebbe stato vano se i fedelissimi soldati delle Due Sicilie avessero avuto la possibilità di battersi contro questa ciurmaglia di miserabili scalzacani. In pratica la fantasmagorica passeggiata (di Garibaldi & Co) da Marsala a Napoli non sarebbe mai avvenuta". (Bruno Lima, Due Sicilie 1860, l'invasione. Fede & Cultura).
Ecco io dovrei tacere tutte queste cose? Dovrei tacere che l'esercito piemontese, 120 mila uomini, hanno messo a ferro e a fuoco tutto il territorio meridionale, facendo rastrellamenti molto simili a quelli operati dai nazisti nel 43-45 in Italia, massacrando migliaia di italiani, definiti briganti. In pratica i popoli delle Due Sicilie vennero privati della loro libertà e soggiogati da un esercito straniero, derubati dei loro beni privati e pubblici Conseguenza di tutto questo per sottrarsi a un destino senza speranza milioni di meridionali non ebbero altra scelta che abbandonare per sempre il loro paese.
Inoltre l'immenso tesoro del Regno che ammontava a 443, 2 milioni di lire del tempo fu sperperato per sanare il devastante debito pubblico piemontese. L'accanimento nel saccheggio del Mezzogiorno - continua don Bruno - e lo sfruttamento incontrollato dei suoi abitanti produsse uno stato di miseria riconducibile storicamente solo alle depredazioni barbariche e a quelle dei pirati berberi. ImEcco si dovrebbero tacere tutte queste cose.

Impossibile, la verità tutta o niente, è l'unica carità concessa alla storia, scriveva uno scrittore francese. E' chiaro che dopo aver conosciuto tutti questi fatti la voglia di festeggiare i 150 anni diminuisce o per lo meno si può solo ricordare, fare memoria.
E se vogliamo ricordare non è per contrapporre il Nord contro il Sud. Anche se è vero: la "liberazione"del Sud è stata, né più né meno, una conquista. E pure spietata. Soltanto che oggi il problema non è quello di partire solo da questo, scrive Pellicciari, a mio modo di vedere, costituisce, un'operazione riduttiva e miope. Non si può contrapporre, come fa Giordano Bruno Guerri, i briganti (i meridionali) e gli italiani civili (i settentrionali). Piuttosto "la contrapposizione vera però non è tanto fra Nord e Sud, quanto fra illuminati (liberali sia settentrionali che meridionali) e cattolici (il 99% degli italiani). I liberali hanno tentato, in nome della libertà e della costituzione, di imporre agli italiani un cambiamento di identità. Hanno voluto che rinunciassimo alla nostra religione, alla nostra cultura, alla nostra arte e alla nostra organizzazione socio-economica". (Angela Pellicciari, Povera Unità, 19. 10. 2010 Il Tempo).
La Pellicciari insiste l'unità d'Italia è stata fatta contro la chiesa e cioè, conviene ripeterlo, contro gli italiani, è un dramma che a distanza di 150 anni non riesce a passare. E non passa perché lo si nega. Ora viene alla luce la realtà della conquista del Sud. Nessuno ricorda la violenza anticattolica ai danni di tutta l'Italia, di cui la violenza antimeridionale è diretta conseguenza.
Rozzano MI, 23 ottobre 2010

Festa di S. Giovanni da Capestrano

Fonte:http://www.miradouro.it/node/46360



PER APPROFONDIRE 






Senza verità, niente risorgimento


Maurizio Blondet

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La dittatura anticattolica

La dittatura anticatolicaIl caso Don Bosco e l’altra faccia del Risorgimento
Quanto è costata in vite umane, in soldi, in devastazioni, libertà e democrazia, la conquista piemontese dell’Italia? Era inevitabile? C’erano vie migliori e, soprattutto, sarebbe stato possibile un’altra via che non discriminasse la Chiesa cattolica?

A queste ed altre domande cerca di rispondere il giornalista e saggista Antonio Socci nel libro “La dittatura anticattolica” (Sugarco Edizioni, pagine 246, 18 Euro).

venerdì 23 aprile 2010

CONOSCERE LA STORIA E' NECESSARIO, DOPO LA RIVENDICAZIONE DI FINI, IERI 22.04.10, PER I FESTEGGIAMENTI DEL 150° UNITA' D'ITALIA

ED ORA RIPASSIAMO UN PO' LA STORIA DELLA NOSTRA ITALIA A PARTIRE DAL RISORGIMENTO,GIUSTO PER I 150 ANNI DI UNITA' D' ITALIA !!!

Senza verità, niente risorgimento


Maurizio Blondet

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Per celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia, sta spendendo 800 milioni di euro di soldi nostri l’apposito Comitato celebrativo: presieduto dal venerabile presidente-emerito Carlo Azeglio Ciampi da Livorno, che probabilmente aggiungera questa sua grassa ‘consulenza’ ai 702 mila e passa euro annui che ci estrae dal portafoglio. Quando si diventa ricchi con la patria, è facile celebrarla. Noi, del tutto gratuitamente – grazie ad una recente rilettura di ‘L’altro risorgimento’ della storica Angela Pellicciari, Piemme, 2000, sentiamo doveroso contribuire un poco a quelle auguste memorie.
INTERVENTI UMANITARI – Quando Londra e Parigi (ossia Palmerston e Napoleone III) decisero di appoggiare i Savoia nella conquista dei pricipati italiani, i giornali europei si riempirono di resoconti raccapriccianti sul malgoverno dello Stato della Chiesa e del Regno delle Due Sicilie: quei popoli «gemevano» nella miseria, nell’arretratezza, sotto una feroce repressione reazionaria di regimi stupidi e feroci. Talchè occorreva «un intervento internazionale» per mettere fine a governi «contrari agli interessi della popolazione». Come in Afghanistan un secolo dopo, occorreva liberare le donne dal chador.

La stampa massonica italiana riprese con delizia le truculente notizie dettate dall’estero. Il 19 marzo 1857 il Corriere Mercantile di Genova attestò che nelle carceri borboniche si usava «la cuffia del silenzio», un aggeggio di tortura applicato al volto dei carcerati per impedire loro di parlare. Inutile dire che questo oggetto era sconosciuto a Napoli. Invece – come raccontò Christophe Moreau, un esperto francese incaricato dal suo governo di studiare il sistema carcerario britannico – era in uso nelle prigioni inglesi: «... Uno strumento  composto di varie bende di ferro che serrano la testa del colpevole, ed è terminato al disotto da una lingua di ferro ricurva che entra nella bocca fino al palato».
Si scrisse che il Vaticano condannava i colpevoli alla frusta. Effettivamente, c’erano circa cinque o sei frustati l’anno. In Gran Bretagna, il gatto a nove code era un sistema corrente di punizione applicato dai tribunali in 7-800 casi l’anno, e usato normalmente senza alcun processo contro i marinai delle navi da guerra.

Secondo i resoconti, nel Sud infuriavano le pene capitali senza controllo. In realtà, dopo la fallita «rivoluzione» del 1848, i tribunali napoletani comminarono ai rivoluzionari mazziniani e filo-francesi 42 condanne a morte. Re Ferdinando II le commutò tutte, non fu eseguita alcuna esecuzione.

Nel civile regno di Sardegna, modello dei giornali europei, il 26 marzo 1856, il deputato Brofferio della sinistra insorge contro l’eccessivo numero di esecuzioni capitali comminate da quando il governo piemontese è diventato «costituzionale e liberale»: 113 esecuzioni tra il 1851 e il 1855, mentre il governo assoluto precedente (1840-44) ne aveva eseguito solo 39. Il regno savoiardo costituzionale condannava a morte otto volte di più della Francia, lamentò Brofferio.

SERVI DI LONDRA – «Le nazioni (europee) riconoscevano all’Italia il diritto di esistere come nazione in quanto le affidavano l’altissimo ufficio di liberarle dal giogo di Roma cattolica (...)»: così il Bollettino del Grande Oriente Italiano nel 1865. Per compiacere il regime anglicano ed ottenerne l’appoggio Cavour soppresse gli ordini religiosi e confiscò i beni ecclesiastici in Piemonte (il Times inneggiò all’azione). La superpotenza dell’epoca – la regina Vittoria – forma una «coalition of the willing» nel 1854 per combattere lo Zar in Crimea, onde impedire alla Russia l’accesso al Bosforo: Cavour manda 15 mila soldati piemontesi in Crimea, onde ingraziarsi Vittoria. Moriranno 5 mila, un terzo degli effettivi, in quella guerra in cui il Piemonte non aveva alcun interesse. Per pagare questa guerra lontana, Cavour contrae un prestito con la finanza britannica, che il Regno d’Italia estinguerà soltanto nel 1902.

Cavour, scrive Angela Pellicciari, era del tutto consapevole che «l’Italia non si costruisce con l’appoggio della popolazione italiana, ma con il sostegno internazionale dei governi liberali, contrari alla fede (...) della grande maggioranza della popolazione».

IMMANE DEBITO PUBBLICO – Cavour ammette alla Camera subalpina il 1 luglio 1850: «So quant’altri che, continuando nella via che abbiamo seguito da due anni, noi andremo difilati al fallimento. E che continuando ad aumentare le gravezze, dopo pochissimi anni saremo nell’impossibilità di contrarre nuovi prestiti e di soddisfare gli antichi».

Debiti nuovi per pagare debiti vecchi, è qui che comincia l’Italia che conosciamo. Nei 34 anni che vanno dalla caduta di Napoleone al 1848, nonostante i danni dell’occupazione francese, il Regno di Sardegna accumulò 134 milioni di debiti. Nei solo 12 anni del governo Cavour, dal 1848 al 1860, il debito pubblico aumenta oltre un miliardo (Stato della Chiesa e Regno di Napoli hanno lievi avanzi di bilancio)(1). Ovviamente, i contribuenti piemontesi furono schiacciati dalla tassazione più esosa d’Italia. Il Piemonte aveva accumulato un miliardo di lire di debito, pari a 200 miliardi di euro odierni. La bancarotta di Stato è imminente, al punto che solo la guerra all’Austria (e la conquista dei principati italiani) può dare una speranza di uscirne. Lo ammette Pier Carlo Boggio, deputato cavourriano nel 1859:

«Ogni anno il bilancio del Piemonte si chiude con un aumento del passivo... L’esercito da solo assorbe un terzo di tutta l’entrata... Il Piemonte accrebbe di 500 milioni il suo debito pubblico... il Piemonte falsò le basi normali del suo bilancio passivo. Ecco dunque il bivio: o la guerra o la bancarotta. La politica del Piemonte in questi anni sarà detta savia, generosa e forte, oppure improvvida, avventata o temeraria, secondochè avremo guerra o pace».

Vinsero, e solo nelle banche dei Borboni trovarono (e prelevarono) l’equivalente di 1.500 miliardi di euro.

MILIARDARI DI STATO – Il conte Camillo Benso di Cavour impose il liberismo assoluto su modello inglese. Di suo, era il maggiore azionista della «Società Anonima Molini Anglo-Americani» (sic) di Collegno, il più grande ente privato granario della penisola. Nel 1853, col raccolto scarso e la fame che infuria fra gli strati popolari, mentre i principati «reazionari» vietano l’esportazione dei grani per nutrire le loro popolazioni, il Piemonte la consente, così che i produttori locali realizzano forti profitti dalle espostazioni del prodotto rincarato. Per questo avvengono disordini davanti all’abitazione di Cavour, stroncati dalla polizia e dalla truppa a fucilate.





Angelo Brofferio
   Angelo Brofferio
Il già citato Angelo Brofferio, deputato della sinistra, acccusa: «Sotto il governo del conte di Cavour ingrassano illecitamente i monopolisti, i magazzinieri, i borsaiuoli, gli speculatori, mentre geme e soffre l’universalità dei cittadini sottto il peso delle tasse e delle imposte». Il deputato fa notare il conflitto d’interesse: «Il conte di Cavour è magazziniere di grano e di farina...».

Cavour possedeva anche una tenuta a Leri: 900 ettari appartenuti all’abbazia di Lucedio, acquistati da suo padre Michele per due lire durante la prima confisca dei beni ecclesiastici, ossia sotto l’occupazione napoleonica (2).
LA CASTA – «Liberata» la Toscana con «spontanea insurrezione», i massoni locali in attesa delle truppe savoiarde instaurano un governo provvisorio, una dittatura «popolare». La presiede il barone Bettino Ricasoli fiorentino. Cavour stesso dirà di lui al re Vittorio Emanuele: Ricasoli «governava la Toscana come un pascià turco, non badando nè a leggi nè a legalità.» Brofferio precisa: «I conti del governo toscano (appena abbattuto) prevedevano per il 1859 un avanzo di 85 mila. Nelle casse c’erano 6 milioni in contanti. Il nuovo governo chiudeva il 1859 con un disavanzo di 14 milioni e 168 mila». In meno di un anno, dilapidato oltre il doppio di quel che il dittatore trovò in cassa. Come?

Ancora Brofferio: «Il pubblico erario era dilapidato per saziare l’ingordigia dei nuovi favoriti; lussi di sbirri e di spie all’infinito; espulsioni, arresti, perquisizioni; la guardia nazionale ordinata a servizio di polizia e non a difesa nazionale. Nessuna libertà di persona, di domicilio, di stampa; ogni associazione vietata; uomini senza fede e senza carattere onorati...».

Erano già i raccomandati.





Carlo Farini
   Carlo Farini
SERVIZI DEVIATI – Una infinità di piazze e strade d’Italia sono dedicate a Ricasoli, Cavour, Carlo Farini, Mazzini, Daniele Manin («dittatore» provvisorio di Venezia, alla Ricasoli), a Niccolò Tommaseo, e ad altri terroristi. In questa lista di venerati padri del Risorgimento manca vistosamente un attivissimo eroe: Filippo Curletti, funzionario di polizia politica (la futura Digos),  protetto di Cavour e suo strumento. Su suo incarico, Curletti organizzò infaticabilmente spontanee sollevazioni popolari nei principati italiani, onde Vittorio Emanuele potesse dire di «non essere insensibile al grido di dolore» che si levava dagli italiani oppressi dall’oscurantismo, e giustificasse  l’intervento dell’armata piemontese. Curletti organizzò sollevazioni ad Ancona, Perugia, Fano, Senigallia, arruolando per la bisogna delinquenti comuni ed evasi.

Come ci riusciva? Lo si scoprì dopo la morte di Cavour, quando Curletti perse il suo protettore e fu processato. Origine del processo fu un pentito – il primo pentito della storia italiana – Vincenzo Cibolla, capo della «banda della Cocca», una gang di delinquenti che terrorizzò Torino negli anni ‘50. Catturato, Cibolla rivela che il primo informatore della banda, nonchè socio nella spartizione del bottino di furti e rapine, era il funzionario di polizia Curletti. La banda della Cocca era il prototipo della Banda della Magliana o delle cosche mafiose che, spesso, hanno dato una mano con attentati e omicidi ai servizi deviati (cosiddetti) nella strategia della tensione.

Condannato a vent’anni in contumacia (era riparato in Svizzera) Curletti pubblica un suo memoriale esplosivo. Raccontando come il Farini, allora dittatore provvisorio di Parma, gli chiese di organizzare l’eccidio del colonnello Anviti (l’ex capo della Polizia di Maria Luigia), come linciaggio «popolare».

«Noi non possiamo toccarlo senza che sorgano clamori – disse Farini a Curletti – Sarebbe mestieri che la popolazione si addossasse l’affare. Voi mi avete compreso». Curletti chiosa: «Io partii, e si sa quel che avvenne».

Il colonnello Anviti,  riconosciuto dal «popolo», fu  trascinato, fra botte e coltellate e canti patriotticci, «al Caffè degli Svizzeri» di Parma, dove «fu collocato sopra un tavolo e gli fu tagliata la testa mentre non era ancor tutto spento». «Alla testa insanguinata si è voluto far trangugiare una tazza di caffè, le si è posto un sigaro in bocca e in questo modo fu portato sulla colonna che sorge sui uno dei quadrati della nostra piazza grande», scrisse il giornale «La Civiltà Cattolica». Il cadavere scempiato fu trascinato nelle strade per quattro ore (3).

Chi erano i patrioti che compirono quest’atto di giustizia popolare? «Un migliaio di precauzionali invecchiati nel vizio e organizzati al delitto», che il dittatore Farini (padre della patria) «fu sollecito a scarcerare dal forte di Castelfranco».

MAZZETTE E TANGENTI – Curletti è uno dei pagatori che – sotto il comando dell’ammiraglio Persano – corrompono con denaro gli alti ufficiali dell’esercito borbonico, onde preparare il successo dei «Mille». Carlo Persano è un pessimo comandante navale (si farà sconfiggere a Lissa, nel 1860, dalla inferiore flotta austriaca), ma un ottimo sovversivo. Nell’agosto 1860 scrive a Cavour «Ho dovuto, eccellenza, soministrare altro denaro. Ventimila ducati al Devincenzi, duemila al console Fasciotti, quattromila al comitato...». In compenso, dice, «possiamo ormai far conto sulla maggior parte dell’officialità della Regia Marina napoletana».

Difatti. Ottocento «straccioni» (dice Ippolito Nievo, che era uno di loro) occupano Palermo senza colpo ferire. E penetrano nel regno di Napoli come coltelli nel burro. Massimo D’Azeglio scrive a un nipote il 29 settembre 1860: «Quando si vede un’armata di 100 mila uomini vinta colla perdita di 8 morti e 18 storpiati, chi vuol capire, capisca».

Garibaldi stesso dice chi sono i suoi patriottici guerrieri in camicia rossa: «tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra... con radici nel letamaio della violenza e del delitto».

Infatti, il governo garibaldino che soppianta il re di Napoli è così descritto da Boggio: «Lo sperpero del denaro pubblico è incredibile... somme favolose scompaiono colla rapidità con cui furono agguantate dalle casse borboniche... Si sciupano milioni, mentre ai soldati vostri (scrive Boggi a Garibaldi) si nega persino il pane. I soldati, lasciati privi del necessario, sono costretti a procurarselo come possono, d’onde i soprusi, gli sperperi, le violenze che irritano le popolazioni».

SONO COSTRETTI – Anche il capo della Digos Curletti, spedito a Napoli liberata, attesta: «Trovai Napoli nel più incredibile disordine. L’esercito rigurgitava di donne: milady White e l’ammiraglia Emilia ne erano le eroine. Le notti scorrevano nell’orgia. Garibaldi non era più riconoscibile; quando non soddisfava la sua smania di popolarità facendosi acclamare nelle strade, passava il tempo fra milady e Alessandro Dumas...».

Già allora, veline e puttane, nani e ballerine. Nel governo garibaldino, il ministro Franceso Crispo minaccia il ministro Cordova puntandogli una pistala al petto. E così via.

Garibaldi si monta la testa, e sogna di formare una repubblica mazziniana, tradendo il Piemonte monarchico. Il già citato Boggio lo invita a meditare: da chi ebbe «i cannoni e le munizioni da guerra? E le somme ingenti di denaro? Perchè, Generale, entraste in Napoli senza colpo ferire?».

E gli ricorda che non è lui ad aver fatto in modo che «i capi delle truppe» disperdessero «le loro truppe».

E Pietro Borreli, massone, scriverà sulla Deutsche Rundschau nell’ottobre 1882:  Garibaldi?:

«Una nullità intellettuale. Gli iniziati sanno che tutta la rivoluzione in Sicilia fu fatta da Cavour, i cui emissari militari, vestiti da merciaiuoli girovaghi, percorrevano l’isola e compravano a prezzo d’oro le persone più influenti».


Lo stesso apparato che propagandò Garibaldi come il purissimo eroe dei due mondi, lo derideva come nullità e incapace, e diffondeva la voce che, se il biondo eroe s’era lasciato crescere la bionda chioma a coprirsi le orecchie, era perchè gliele avevano tagliate in Sudamerica per un furto di cavalli.

CAPITALISTI SENZA CAPITALE – L’Eroe capì l’antifona, e pronununciò il suo «obbedisco». Se ne andò a Caprera, lasciando il Sud a Vittorio Emanuele. Ma non senza prima aver ceduto l’appalto delle Ferrovie Meridionali a Pier Augusto Adami e ad Adriano Lemmi, entrambi finanzieri ebrei di Livorno, nonchè cognati, che avevano pagato parte dei conti del Biondo Nizzardo. Una concessione in cui lo Stato avrebbe dovuto accollarsi tutte le perdite di gestione.
   
Il deputato Poerio disse in parlamento: tale contratto «vincola per lunghi anni l’avvenire di quelle provincie (meridionali), le sottopone all’onere immenso di 650 milioni di lire, ed assicura inoltre alla casa concessionaria l’utile netto del 17% senza sborsare un obolo del proprio».

Come poi faranno gli Agnelli, i Pirelli, i Bastogi, capitalisti mantenuti col capitale di Mediobanca. Adriano Lemmi diverrà poi Gran Maestro della Massoneria, nonchè  padrone del monopolio dei tabacchi.

BROGLI ELETTORALI – Nonostante le rivolte che scoppiano dovunque, le fucilazioni e le repressioni ferocissime (4), i «popoli del Sud» (e della Chiesa) votano in massa per l’annessione ai Savoia nei plebisciti che vengono indetti nei territori appena conquistati, nel 1860. A votare sono quasi 3 milioni di persone, e il 98% si pronuncia per Vittorio Emanuele. E’ un risultato di quelli che oggi si chiamano bulgari, anzichè savoiardi. Un pochino strano se si pensa che l’anno dopo, nelle prime elezioni politiche dell’Italia unita del 1861, dove il diritto di voto è basato sul censo e possono votare solo il 2 % dei sudditi (ossia 419.938 maschi), va effettivamente alle urne solo il 57% degli aventi diritto, ossia 242 mila individui.

Il miracolo lo spiega ancora nel suo memoriale il capo della paleo-Digos Curletti, vero misconosciuto eroe del Risorgimento: «Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede (...) Un picciol numero di elettori si presentarono a prendervi parte; ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti (...) Chiamavamo ciò completare la votazione (..). Per quel che riguarda Modena, posso parlarne con cognizione di causa, poichè tutto si fece sotto i miei occhi e sotto la mia direzione. Le cose non avvennero diversamente a Parma e a Firenze».

Non essendoci scrutatori dell’opposizione (quale? Ogni opposizione era fuorilegge), essendo i chiamati a votare per lo più analfabeti e ignari del metodo elettorale e quindi astensionisti in massa, la cosa potè passare con facilità. I giornali inglesi inneggiarono al trionfo della democrazia, come oggi per le votazioni in Afghanistan ed Iraq.

ELEZIONI INVALIDATE – Del resto, già nel Piemonte del 1857 Cavour aveva mostrato come rispettasse le urne. Votarono allora, col sistema censitario, solo 69.470 cittadini;  il 67% degli aventi diritto, che erano il 2,4% della popolazione. Nonostante ciò, a causa delle esazioni fiscali, della miseria e insicurezza (criminalità altissima) e dei debiti pubblici enormi, in quel voto addomesticato di soli benestanti, l’opposizione (cattolica) passò dal 20,4% al 40,2%. Il governo Cavour rischia di trovarsi di fronte una vera opposizione, e persino di cadere.

La soluzione è presto trovata: il capo del governo Camillo Benso invalida l’elezione di 22 deputati dell’opposizione. La votazione, afferma il 23 dicembre 1857, è il segno che «il partito clericale sta agendo nell’ombra... per far tornare indietro la società, per impedire il regolare sviluppo della civiltà moderna». Colpa dei preti, che nei confessionali hanno indotto a votare contro la Patria. Cavour: «Si denuncia l’uso dei mezzi spirituali nella lotta elettorale». Questa è la motivazione per cui le elezioni sono invalidate: abuso di mezzi spirituali.



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Il ladro di cavalli Garibaldi

IN ATTESA DI GIUDIZIO – Nell’inverno 1862-63 Lord Henry Lennox, un ammiratore del Risorgimento, visitò le prigioni di Napoli sotto il governo piemontese, strapiene di ribelli al regime. Ne riferì alla Camera dei Comuni. Sulla prigione di Santa Maria:
   «... pensavo che i prigionieri fossero stati processati, prima di essere condannati; mi spiace dirlo, non era così. Un ungherese di nome Blumenthal, in fluente francese, mi disse che si trovava da 18 mesi in cella senza essere stato nè processato nè interrogato (...). Quando lasciai la sua cella, altri prigionieri si affollarono attorno a me e al mio accompagnatore chiedendoci in italiano: ‘Perchè siamo in prigione?Perchè non ci processano? (...). Il direttore mi rispose che non sapeva cosa dire: aveva sotto la sua sorveglianza 83 persone mai processate, delle quali circa la metà non erano nemmeno state sottoposte a interrogatorio. Erano detenuti senza sapere di quale delitto fossero accusati (...). Molti di loro erano uomini dall’aspetto misero, balbettanti, i capelli bianchi, appoggiati a grucce, poveri disgraziati desiderosi solo di finire i propri giorni in un ospizio».

   Visita alla prigione La Concordia:
   «...C’erano un vescovo cattolico romano e due preti, tirati giù dal letto un mese prima, e destinati a trascorrere i propri giorni in compagnia di criminali incalliti (...). C’era un uomo in prigione da due anni, un vecchio vicino ai settant’anni, curvo per l’età e costretto ai pasti carcerari: uno al giorno e solo acqua da bere».
   Una prigione a Salerno:
   «... Il direttore fu estremamente cortese e, saputo il motivo della mia visita, si augurò che potesse recare qualche positiva conseguenza. Soggiunse che era costretto in quel momento a tenere 1.359 prigionieri in un carcere che poteva ospitarne 650: tale affollamento aveva provocato un’epidemia di tifo che aveva ucciso anche un medico e una guardia».
   Visita alla prigione della Vicaria:
   «… Dei 1000 prigionieri, 800 erano confinati in cinque stanze non divise da porte, ma da sbarre di ferro, cosicchè gli effluvii emanati da quegli 800 uomini circolavano liberamente da un capo all’altro (...). Ma torniamo al cortile della prigione. Per fortuna non capita spesso di vedere quello che ho visto, uno spettacolo che non dimenticherò mai... Non appena mi videro, i detenuti si precipitarono verso di me con grida pietose e reiterate, con gli occhi iniettati di sangue e le braccia protese, implorando non la libertà, ma il processo; non la clemenza, ma una sentenza (...). Ho conversato con detenuti in attesa di giudizio che mi dicevano: ‘Se almeno potessimo avere qualche indizio della sentenza che ci attende, la nostra disperazione non sarebbe così nera. Alla fine di ogni cammino, per quanto duro, è possibile scorgere una scintilla di speranza; ora invece c’è solo disperazione».

HOLODMOR MERIDIONALE – Il francese Charles Garnier raccolse un buon numero di proclami emessi dai comandanti piemontesi durante la guerra al brigantaggio, ed affissi nei paesi. Generale Galatieri, dal suo quartier generale di Teramo, giugno 1861: «Vengo a difendere l’umanità e il diritto di proprietà, e sterminare il brigantaggio. Chiunque ospiti un brigante sarà fucilato senza distinzione di sesso, età, condizione; le spie faranno la stessa fine. Chiunque, essendo interrogato, non collabori con la forza pubblica per scoprire le posizioni e i movimenti dei briganti, vedrà la sua casa saccheggiata e bruciata».
Proclama del maggiore Fumel, febbaio 1862:
«... Coloro che diano asilo o qualsiasi altro mezzo di sussitenza ai briganti, o li vedano o sappiano dove han rovato rifugio e non informino le autorità civili e militari, saranno immediatamente fucilati. Tutti gli animali dovranno essere condotti nei depositi centrali con scorta adeguata. 

Tutte le capanne (usate dai pastori, ndr) dovranno essere bruciate. Le torri e le case di campagna disabitate dovranno essere scoperchiate, e le entrate murate nel termine di tre giorni; dopo lo spirare di tale termine, esse saranno bruciate senza fallo e gli animali privi di custodia appropriata saranno uccisi.

E’ proibito portare pane o altro genere di provviste fuori dell’abitato del comune; i trasgressori saranno considerati complici dei briganti. La caccia viene temporaneamente proibita.
   
Il sottoscritto non intende riconoscere, date le circostanze, più di due schieramenti: pro o contro i briganti! Pertanto classificherà tra i primi gli indifferenti e contro di loro adotterà misure energiche, perchè in tempo di emergenza la neutralità è un crimine.

I soldati sbandati che non si presentassero entro quattro giorni, saranno considerati briganti
».

Il colonnello Fantoni, nel proclama emesso da Lucera il 9 febbraio 1862, nel primo articolo, vietava l’accesso, anche a piedi, a tredici foreste, fra cui quella del Gargano.

«Ogni proprietario terriero, fattore o mezzadro sarà obbligato, subito dopo la pubblicazione di questo avviso, a ritirare da dette foreste tutti i lavoratori, pastori, pecorai, eccetera, e con loro le greggi; dette persone saranno obbligate a distruggere tutte le stalle e le capanne erette in questi luoghi.

D’ora in avanti nessuno può portar fuori dai distretti circonvicini alcuna provvista per i contadini, e a questi ultimi non sarà permesso portare più cibo di quanto sia necessario per un singolo giorno ad ogni persona della loro famiglia.

Coloro che non obbediranno a questo ordine, che entrerà in vigore due giorni dopo la pubblicazione, saranno, senza eccezione alcuna di tempo, di luogo e persona, fucilati
».

Prefetto De Ferrari, di Foggia e Capitanata, 1863: «... Tutti gli animali del territorio saranno immediatamente radunati in poche località a fine di essere meglio custoditi. Tutte le piccole fattorie saranno abbandonate, cibo e foraggio rimossi e gli edifici murati. Nessuno potrà andare nei campi senza autorizzazione scritta del sindaco e scorta sufficiente».

L’8 luglio, il prefetto Ferrari aggiunge un altro divieto: «I cavalli possono essere ferrati solo in pubblico e in officine autorizzate; nessun maniscalco o produttore di ferri e chiodi poteva allontanarsi dal proprio distretto senza un documento, che indicasse la via che avrebbe percorso, l’ora della partenza e l’ora del ritorno. Chiunque possedesse ferri e chiodi per la ferratura doveva farne denuncia alle autorità».

Non erano vane minacce. Il 29 aprile 1862 il deputato Giuseppe Ferrari disse alla Camera: «Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle provincie, degli uomini assolti dai giudici, che restano in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato... Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi».

Fu la rovina della sussistenza economica, la messa alla fame; decine i paesi incendiati, innumerevoli le atrocità, di cui per lo più è stata soppressa la memoria, che ricordano da vicino lo sterminio dei contadini in Ucraina, operato da Stalin e Kaganovich.

Di una atrocità si sa, perchè ne discusse la Camera dei Comuni britannica: a Pontelandolfo in  Molise, trenta donne che si erano rifugiate intorno alla croce eretta nella piazza del mercato, sperando di trovarvi scampo dagli oltraggi, furono tutte uccise a colpi di baionetta. Persino Napoleone II, che aveva dato il suo potente appoggio armato a Cavour per la conquista dell’Italia, il 21 luglio 1863 scriveva al suo generale Fleury:

«Ho scritto a Torino le mie rimostranze; i dettagli di cui veniamo a conoscenza sono tali da alienare tutti gli onesti alla causa italiana. Non solo la miseria e l’anarchia sono al culmine, ma gli atti più indegni sono considerati normali espedienti: un generale di cui non ricordo il nome, avendo proibito ai contadini di portare scorte di cibo quando si recano al lavoro dei campi, ha decretato che siano fucilati tutti coloro che vengono trovati in possesso di un pezzo di pane. I Borboni non hanno mai fatto cose simili – Napoleone».

Dato che l’Italia è nata così, non ci si può stupire che oggi sia così. In fondo, può essere consolante: non siamo peggiorati, eravamo peggiori fin dall’inizio.

Da centocinquant’anni questo merdaio originale, anzichè essere discusso e servire a un severo esame di coscienza nazionale (4), viene nascosto, e verniciato in similoro con la ripugnante tronfia  retorica risorgimentale emanata direttamente dalle logge; chi obietta e riporta i dati del merdaio viene seppellito dalle accuse di «integralismo cattolico», «revisionismo» vietato, reazione; e censurato dai media – come il volume della storica Angela Pellicciari da cui abbiamo tratto queste informazioni.

La retorica risorgimentale ci sommergerà con le sue mucillagini dolciastre e infette anche nelle imminenti Celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, per cui sta spendendo 800 milioni di euro il Comitato celebrativo: presieduto da un livornese come lo erano i banchieri Adami e Lemmi.

Giornalisti a ciò addetti, e ben istruiti, già si sono portati avanti. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo già vagano nei luoghi santi della retorica massonica, Calatafimi, Teano, eccetera, per sgridare «noi italiani senza memoria». Noi abitanti di un Paese «che sembra aver buttato via l’unica epopea che aveva. Quella del ‘Risorgimento’. Il grande romanzo culturale, militare e sociale».

Si domanda Stella: «E’ questa l’‘Italia redenta, pura di ogni macchia di servitù e di ogni sozzura d’egoismo e corruzione’ che immaginava Mazzini?».

Stella e Rizzo ci scriveranno un libro di successo assicurato: noi italiani senza memoria, appunto.

Senza memoria? L’avete voluto voi: rivendichiamo la memoria censurata. Lo facciamo proprio in quanto italiani: quella menzogna sanguinosa che cova nel cuore italiano è precisamente la frattura interna che rende l’Italia corrotta, moralmente malata, incapace di reggersi nel mondo con dignità, senza spezzarsi ai primi scontri con la storia.

Il tradimento originale è sempre pronto a riemergere in nuovi tradimenti, intelligenze col nemico, diserzioni sul campo e particolarismi delinquenziali – proprio perchè la ferita non è sanata, ma coperta con cataplasmi di menzogna e retorica, che la fanno marcire all’infinito.

Il 150enario da cui Ciampi guadagna e fa guadagnare i suoi compari, facciamolo diventare una rivendicazione di verità: verità sul Risorgimento! Perchè senza verità non ci sarà alcun risorgimento possibile. La verità sola, e intera, può essere l’inizio della riconciliazione.

Quindi, lancio un appello ai lettori. Andate sul sito ufficiale del Comitato Celebrativo di fratel Ciampi (http://www.italia150.it/); non perdete tempo a leggere le ridicole menzogne che già lo affollano («150 anni e non li dimostra», per esempio); andate in alto a destra, dove c’è la voce «contatti». E alluvionate quei «contatti» di mail, lettere e fax con un solo messaggio:

Verità sul Risorgimento!

Ricordate le Marzabotto del Sud, a cominciare dalle donne di Pontelandolfo! Non più silenzio sui lager piemontesi per i soldati delle Due Sicilie! Fatevi tornare la memoria!

Si potrebbe anche ricorrere al sarcasmo. Per esempio, fare una petizione per un monumento a Curletti, il capo della polizia politica di Cavour e insieme della banda della Cocca, grande suscitatore di spontanee manifestazioni popolari e prezioso completatore di votazioni.

Proponete l’iscrizione: «Filippo Curletti, patriota e poliziotto, pregiudicato contumace».

Oppure, fate una petizione popolare per intitolare una piazza ad Adami e Lemmi, «profittatori e cognati».
   
Ma forse è meglio di no, non hanno il senso dell’umorismo. Ciampi potrebbe anche farlo.

    



1) Nel Regno delle Due Sicilie la tassazione era la più lieve d’Europa (-30% di quella inglese, meno 20% di quella francese). La tassa ammontava, nel 1859, a 14 franchi a testa. Nel 1866, sotto il regime italiano, erano salite a 28 franchi a testa. Fu più che raddoppiata la tassa sul macinato (che colpiva i poveri) «ed estesa a tutte le granaglie, persino alle castagne»; fu estesa al resto dell’Italia la minuziosa tassazione savoiarda, come la tassa sulle finestre, «la gabella sulla macellazione del maiale» e «il dazio sul minimo consumo» (che colpiva chi comprava un litro di vino per volta, ma non chi ne comprava 25 litri). Non solo il Regno di Napoli fu il primo a mettere in esercizio la prima ferrovia in Italia, ma anche il primo telegrafo, il primo ponte sospeso, i primi fari diottrici moderni furono costruiti e installati nel regno dei Borboni, da una classe tecnica evidentemente competente e moderna. Il primo battello a vapore varato da un arsenale italiano fu costruito a Napoli. Il giornalista francese Charles Garnier fornì prove certe del fatto che, nei primi sei anni dell’unità italiana, alcune delle più prospere manifatture napoletane furono deliberatamente distrutte per favorire quelle del Nord (Patrick K. O’Clery, «La Rivoluzione Italiana», Ares, 2000, pagina 374).

2) La confisca dei beni ecclesiastici provocò la sparizione di quel poco di previdenza e assistenza sociale vigente, che era tutta e solo caritativa e cattolica; ne risultò un tragico peggioramento della  miseria delle classi povere, con un conseguente aumento esponenziale della criminalità.

3) A Venezia e a Roma avvennero episodi simili nel 1848. A Roma Pellegrino Rossi, ministro del Pontefice, fu circondato dalla folla e accoltellato alla gola sotto gli occhi della Guardia Civica rivoluzionaria, poi lasciato agonizzare nel palazzo stesso dov’era il parlamento rivoluzionario. A Venezia, istigata da Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, una folla feroce s’impossessò del comandante dell’Arsenale, colonnello Marinovich, «impopolare presso gli operai per la rigida disciplina a cui li sottoponeva». Gli operai afferrarono lo sventurato, lo trascinarono giù per le scale, lo  percossero spietatamente, lo trafissero ripetutamente con la sua stessa spada e con coltelli. Il poveretto implorò un prete, ma gli venne negato; fu linciato e fatto a pezzi da centinaia di individui. Il governo repubblicano definì l’evento un giudizio di Dio. E’ evidente che questi orrende macellerie furono atti deliberati, con lo scopo di spargere il terrore tra i legittimisti e dissuaderli da ogni resistenza. Resta la constatazione che gli italiani brava gente, periodicamente, si producono in vili scempi di cadaveri. Da noi sono ricorrenti i Piazzali Loreto, atti tipici di vili impotenti. Nel 1814 gli animosi milanesi avevano già massacrato nello stesso modo Giuseppe Prina, ministro delle Finanze del Regno d’Italia napoleonico: con le punte degli ombrelli, per quattro ore, fino a renderne il corpo irriconoscibile. La folla era guidata dal patriota Federico Confalonieri. Si veda Patrick K. O’Clery, citato, Ares, 2000, pagina 142.

4) Il solo Nino Bixio eseguì oltre 700 condanne a morte senza processo. Da un giornale dell’epoca, L’Unione: «Bixio ammazza a rompicollo, all’impazzata... fa moschettare tutti i (soldati e ufficiali) prigionieri stranieri che gli capitano tra le unghie, e tira colpi di pistola a quei suoi ufficiali che osano far motto di disapprovazione». Esecuzioni per stroncare una possibile classe dirigente legittimista: purghe staliniane ante litteram.

Per esempio ci si dovrebbe chiedere se le burocrazie pubbliche inadempienti e disoneste che gravano sulla società non abbiamo ereditato lo spirito di corpo della burocrazia piemontese: immediatamente estesa all’Italia appena conquistata, essa non si visse ovviamente come a servizio della popolazione, ma con la missione di taglieggiarla e controllarla come corpo ostile, ponendo quanti più ostacoli alla sua iniziativa libera, ritenuta pericolosa. Ancor oggi l’apparato burocratico (la Casta) si comporta rispetto alla società come un nemico occupante. La stessa riflessione va fatta per le istituzioni in generale. I Savoia non crearono un sistema giuridico italiano; si limitarono ad estendere al resto dell’Italia - appunto come occupanti - il «diritto» piemontese, tanto che a Napoli si faticò a tradurre le nuove leggi, scritte in italiano approssimativo, infarcito di  francesismi e  termini dialettali subalpini.
   

LA DITTATURA ANTICATTOLICA RACCONTATA DA ANTONIO SOCCI


ROMA, giovedì, 18 novembre 2004 (ZENIT.org).- Quanto è costata in vite umane, in soldi, in devastazioni, libertà e democrazia, la conquista piemontese dell’Italia? Era inevitabile? C’erano vie migliori e, soprattutto, sarebbe stato possibile un’altra via che non discriminasse la Chiesa cattolica?

A queste ed altre domande cerca di rispondere il giornalista e saggista Antonio Socci nel libro “La dittatura anticattolica” (Sugarco Edizioni, pagine 246, 18 Euro).


Data la rilevanza dei temi trattati e il coraggio con cui si cerca di approfondire e conoscere la storia controversa dell’Unità d’Italia, ZENIT ha voluto intervistare l’autore di questo volume.

Lei parla di dittatura anticattolica. Ci spiega il perchè? 

Antonio Socci: Un’operazione militare che sopprime migliaia di monasteri, conventi, abbazie. Un regime che sacrifica vite umane in conflitto fratricida, un regime che cerca di imprigionare cento vescovi e 8 cardinali e che impedisce la libertà di stampa. Un simulacro di democrazia dove in realtà conta solo l’1 per cento della popolazione ed il 99% del popolo contadino e cattolico non è rappresentato, mantenuto nella più totale irrilevanza e nella miseria. Se questa non è una dittatura anticattolica, che cos’è?

Molti sono convinti che la guerra dei Savoia contro la Santa Sede fu necessaria per arrivare all'Unità del paese. 

Antonio Socci: Si tratta di una storia artefatta che non corrisponde alla realtà. La prima cultura unitaria e nazionale è cattolica. Il Papa è stato visto da tutti come unico punto di riferimento per cercare di federare i diverse regni italiani.

Questa linea consensuale e federalista era stata considerata più realista, ed era quella che non costava vite umane e non costava soldi, perché ricordiamoci la conquista dell’Italia è costata migliaia di vite umane italiane e non straniere, soprattutto al sud, così come un capitale immenso.

Non a caso il regime sabaudo si è rifatto confiscando i beni della Chiesa in tutta la penisola. Questa fu la logica, tutti quegli espropri che nemmeno nei paesi dell’est durante il Novecento sono stati fatti, servivano a finanziare il regime militarista.

La procedura consensuale, come si fa oggi per la costituzione dell’Europa, per adesione degli Stati verso un autorità centrale e federale, sarebbe invece stata la via da preferire. Oggi nessuno si sognerebbe di pensare che il modo per costituire un’Europa unita sia quello di vedere che Francia e Germania si sveglino e mandino le truppe a germanizzare o francesizzare l’Europa. Se lo facessero si direbbe che sarebbe un disegno criminale.

Eppure nel caso dell’Italia si attuò proprio una politica militare. Invece di una politica consensuale e federale si preferì la conquista militare di parte, una violenza di fatto. Una aggressione del Regno sabaudo per fini espansionistici.

Attraverso il lasciapassare di potenze straniere come Gran Bretagna e Germania, l’Italia nasce con un handicap: una democrazia zoppa, non funzionante, antipopolare, tendenzialmente assolutista, e dipendente da potenze straniere con le quali partecipa nell’immane bagno di sangue che fu la prima Guerra mondiale. Un disastro e una sciagura a non finire che continua con il fascismo, il comunismo e poi il nazismo. 

E’ stata un avventura nata nel segno della lotta contro la Chiesa e conclusasi con la grande tragedia del Novecento a cui l’Italia purtroppo ha partecipato.

Che ruolo hanno svolto nel Risorgimento personaggi cattolici come Alessandro Manzoni, Silvio Pellico, Massimo D'Azeglio, Vincenzo Gioberti, Antonio Rosmini? 

Antonio Socci: Beh, si tratta di figure diverse, c’è stato chi ha dato un’adesione di opinione e chi invece ha partecipato con azione e decisione. C’è da dire che è abbastanza impressionante che il più feroce attacco contro la Chiesa in Italia in duemila anni di storia, sia stato perpetrato con il consenso o la collaborazione di persone che si professavano cattoliche e non si rendevano conto della situazione.

Faccio un esempio banale, il Manzoni che ha scritto un bellissimo libro “Osservazione sulla morale cattolica”, in cui contesta le tesi di un storico ed economista ginevrino Gismondo de Gismondi, il quale sosteneva che la Chiesa era stata la rovina dell’Italia, paradossalmente è poi colui che non era riuscito a cogliere nei fatti e nella realtà ciò che aveva colto nel dibattito culturale.

Pare comunque che dopo le vicende di Roma Manzoni si fosse ammutolito, poiché si era reso conto di quello che stava accadendo.

Lei sostiene nel libro che i Pontefici sono intervenuti più volte nella storia dell'Italia per salvarla dalle dittature e dai disastri. Ci fa alcuni esempi? 

Antonio Socci: Storicamente, senza il Papato, questa Italia non sarebbe esistita proprio, sarebbe stata una prateria dove avrebbero scorrazzato gli eserciti stranieri.

A salvarla è stata il Papato che fin dall’inizio ha protetto Roma e l’Italia dalle scorrerie dei barbari, dalle conquiste dei saraceni e dei turchi. E’ stato il Papato che ha dato ed ha consolidato l’identità nazionale, culturale e spirituale di questo paese. Non lo dico io, ma lo dice uno storico laicista come Gibbons parlando di Gregorio Magno.

Per non dire quello che i Papi hanno fatto nel mondo civile e culturale. Insomma la presenza della Chiesa è stata la vera gloria dell’Italia. Obbiettivamente questo è sotto gli occhi di tutti ed è assolutamente incontestabile.

L’Italia ha avuto la forza e la grandezza e l’amore di questa autorità spirituale planetaria che è stato il Papato, che ha letteralmente allevato e protetto la nazione italiana, come una madre fa con un figlio.

Quali secondo lei i tratti salienti della testimonianza cristiana di un Santo come Don Bosco?

Antonio Socci: Don Bosco è stato una dei più grandi Santi dell’epoca moderna. Innanzitutto, figlio del popolo contadino e cattolico, quindi proprio un emblema che si contrappone alle aristocrazie laiciste e volterriane che detenevano il potere.

Don Bosco ha intuito che bisognava ripetere quello che era accaduto sul lago di Tiberiade tanti anni fa, facendo incontrare Gesù con tanti ragazzi che per la iniziale industrializzazione si trovavano nello stato di abbandono.

A questi ragazzi ha fatto conoscere una compagnia che si occupasse di loro e attraverso di essa l’amore di Gesù Cristo.

Un’opera straordinaria che anche dal punto civile ha avuto effetti straordinari, perché ha sviluppato l’opera educativa, di avviamento al lavoro, di cura dell’emarginazione assolutamente unica.

In quel tempo lo Stato sabaudo dedicava il 40/50 per cento delle finanze pubbliche al bilancio militare e appena l’uno, due per cento alle spese per la sanità e l’educazione, quindi uno Stato assolutamente antipopolare.

Don Bosco è stato un maestro anche per un altro motivo: seppure schierandosi in maniera decisissima a favore della Chiesa non ha assunto un atteggiamento reazionario, ma ha tentato di ricavare spazi di libertà per la Chiesa e per la sua opera attraverso il realismo cristiano. Non rimpiangeva i tempi antichi, ma concretamente si dava da fare per il bene dei ragazzi e delle opere cristiane.

Il veterolaicismo anticattolico che sembra dominare nell'Europa odierna ha qualche affinità con la rivoluzione anti-Chiesa che sconvolse l'Europa nella metà dell'800? 

Antonio Socci: L’affinità è sempre questa, ogni potere ha sempre trovato nella Chiesa, e le vicende del Novecento ne hanno dato una prova suprema e tragica, un nemico per il semplice fatto che essa si è sempre opposta ad una pretesa assoluta del potere.

Faccio un esempio banale. La contestazione che la Chiesa fece nell’Ottocento è la stessa di quella che fece al fascismo, cioè l’idea di uno Stato etico, l’idea che lo Stato sia la fonte dei diritti della persona.

Per la Chiesa esiste un diritto naturale della persona che lo Stato non può conculcare, neanche la maggioranza di uno Stato democratico può conculcare, ma si tratta di una dimensione che esso deve rispettare.

Se si pensa alle discussioni di oggi sulle manipolazioni genetiche, sulla legge 40/2004, in qualche modo riproducono questo stesso problema. La Chiesa dice: guardate che ci sono diritti fondamentali come il diritto alla vita su cui non si può transigere con nessuna disposizione di uno Stato, neanche di un parlamento democratico. Questo diritto lo Stato lo deve soltanto proteggere e garantire. 

Mentre invece alcuni sostengono che lo Stato può legiferare su quello che vuole, da cui deriverebbe che se oggi un parlamento democraticamente eletto decidesse di reintrodurre le famigerate leggi razziali introdotte in Germania negli anni Trenta, in base a quei principi lì diventerebbero legittime, mentre invece sono una aberrazione infame. 

La dittatura anticattolica


La Passione della Chiesa


2 APRILE 2010 / IN NEWS


La Passione della Chiesa, che è in corso, è stata profetizzata per filo e per segno. Qualunque cosa si pensi delle moderne apparizioni della Madonna, i documenti parlano chiaro.

I due volti simbolo dell’attuale Passione della Chiesa sono il Papa e un povero e umile cristiano del Pakistan, Arshed Masih, 38 anni, che lavorava come autista a Rawalpindi.

Davanti a tre poliziotti e alcuni capi religiosi musulmani è stato cosparso di benzina e bruciato vivo perché si rifiutava di rinnegare Cristo e di convertirsi all’Islam.

E quando la moglie Martha, distrutta dal dolore, è andata al commissariato a denunciare l’assassinio del marito, è stata torturata e stuprata dai poliziotti davanti agli occhi atterriti dei figlioletti di 7, 10 e 12 anni.

L’episodio è di questi giorni, ma documenta il continuo, immane martirio di cristiani che nel Novecento è stato perpetrato sotto tutti i regimi, le ideologie e le latitudini.

Uno sociologo di Oxford ha calcolato in 45 milioni i cristiani che hanno perso la vita, in modo diretto o indiretto, a causa della propria fede.

Questo oceano di sangue cristiano era stato profetizzato esplicitamente a Fatima, dalla Madonna. E’ scritto nero su bianco.

Tale martirio resta tuttora sconosciuto ai più. Anzi, ad esso viene aggiunto il martirio morale della Chiesa trascinata sul banco degli accusati e bollata col marchio di infamia.

Sempre a Fatima la Madonna ha profetizzato la persecuzione del Papa e in una visione di Giacinta (una dei tre pastorelli, beatificata nel 2000), sembra di scorgere un suo linciaggio morale che pare coincidere con ciò che Benedetto XVI si trova a vivere in queste settimane.

Tale visione è descritta nella “terza memoria” di suor Lucia, datata 31 agosto 1941:

“Un giorno Giacinta si sedette sulle lastre del pozzo dei miei genitori… Dopo qualche tempo mi chiama.

- Non hai visto il Santo Padre?

- No !

- Non so com’è stato! Io ho visto il Santo Padre in una casa molto grande, inginocchiato davanti a un tavolo, con la faccia tra le mani, in pianto. Fuori dalla casa c’era molta gente, alcuni tiravano sassi, altri imprecavano e dicevano molte parolacce. Povero Santo Padre! Dobbiamo pregare molto per Lui!”.

Sembra la descrizione del linciaggio morale a cui è sottoposto oggi il Papa. E’ in corso infatti una delegittimazione morale della Chiesa di cui non si ricorda uguale, addirittura col tentativo esplicito di trascinare personalmente il Pontefice in giudizio come capo di un’accolita di malfattori.

Va aggiunto che alle persecuzioni contro la Chiesa seguono sempre disgrazie per il mondo. Infatti la visione di Giacinta prosegue così:

“Non vedi tante strade, tanti sentieri e campi pieni di persone che piangono di fame e non hanno niente da mangiare? E il Santo Padre in una chiesa, davanti al Cuore Immacolato di Maria, in preghiera? E tanta gente in preghiera con Lui?”.

Tutto questo martirio materiale e morale della Chiesa del XX secolo sembra rappresentare una svolta drammatica della sua storia millenaria.

Come è stato rivelato – quando stava iniziando – a un papa, quel Leone XIII, autore della “Rerum novarum” (la prima enciclica sociale) che traghettò la Chiesa nel Novecento.

Una mattina infatti, il 13 ottobre 1884 (lo stesso giorno dell’apparizione finale di Fatima: 13 ottobre 1917), dopo la celebrazione della Messa, mentre papa Leone XIII era in preghiera, fu visto alzare la testa come se avesse una visione.

Sembrò terrorizzato: gli fu dato di sentire un dialogo, presso il tabernacolo. Una voce orribile, appartenente a Satana, lanciava la sfida a Dio, dicendosi capace di distruggere la Chiesa se solo avesse potuto metterla alla prova (Satana disprezza sempre gli uomini che continuamente accusa. Mentre Dio dà sempre fiducia ai suoi figli).

Sembra sia stata permessa tale prova per circa un secolo.

Quindi papa Leone XIII – quella mattina del 1884 – vide in visione la Basilica di San Pietro assalita dai demoni e scossa fin dalle fondamenta.

La rivelazione al papa coincide con quella alla mistica Anna Katharina Emmerich, che scrisse:

“Se non sbaglio sentii che Lucifero sarà liberato e gli verranno tolte le catene, cinquanta o sessant’anni prima degli anni 2000 dopo Cristo, per un certo tempo. Sentii che altri avvenimenti sarebbero accaduti in tempi determinati, ma che ho dimenticato”.

Fu dopo quella visione che Leone XIII scrisse la preghiera, per la protezione della Chiesa, a San Michele Arcangelo che si è recitata alla fine della Messa fino al Concilio. Dopo il quale fu abolita e dopo il quale, già nei primi anni Sessanta, Paolo VI annuncerà drammaticamente: “Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio”.

Di recente il famoso esorcista, padre Gabriele Amorth, ha spiegato che quel fumo di Satana in Vaticano va inteso anche in senso letterale: uomini sotto il potere di Satana che sarebbero presenti nella Chiesa e nel Vaticano stesso.

Che questo attacco demoniaco comprenda anche la caduta di alcuni preti in perversioni come la pedofilia (crimini contro i figli di Dio più innocenti e inermi: i bambini), è stato predetto dalla Madonna – a quanto pare – a La Salette nel 1846 (dove la Vergine preannunciò pure le sofferenze del papa e attentati ai suoi danni).

L’apparizione è riconosciuta dalla Chiesa, ma su questo testo non c’è un giudizio ufficiale: “La Chiesa subirà una crisi spaventosa” avrebbe detto la Madonna, “si vedrà l’abominio nei luoghi santi; nei conventi i fiori della Chiesa saranno putrefatti e il demonio diventerà come il re dei cuori (…) i sacerdoti con la loro cattiva vita sono diventati delle cloache di impurità”.

Dopo 150 anni, nella celebre Via Crucis del 25 marzo 2005, il cardinal Ratzinger constaterà: “quanta sporcizia nella Chiesa”. Con le pesanti parole di quella Via crucis probabilmente Ratzinger e Giovanni Paolo II intesero implicitamente rivelare (per obbedire alla Madonna), i contenuti ancora non pubblicati del “terzo segreto di Fatima”, dello stesso tenore della Salette.

Tutta questa serie di apparizioni della Madonna, che convergono nei contenuti, aveva lo scopo di avvertire che quella attuale è un’epoca eccezionale della storia della Chiesa e che è in corso uno speciale soccorso del Cielo.

Quello che è accaduto e che sta accadendo prova che gli avvertimenti profetici erano autentici e dimostra pure che la Madonna ha la missione speciale di salvare la Chiesa in questa terribile, lunga prova.

Purché la si ascolti. Perché il misfatto peggiore che il ceto ecclesiastico ha compiuto e può compiere è proprio quello di “disprezzare le profezie” e “spegnere lo Spirito”.

Fu perpetrato con le persecuzioni a preti santi, come padre Pio. E fu ripetuto in parte con Fatima, rifiutandosi per decenni di fare la Consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria (per esorcizzare il comunismo), come chiesto dalla Madonna stessa.

Infatti, apparendo a suor Lucia, Gesù nel 1930 previde la persecuzione dei papi proprio a causa di quella sordità.

Adesso il “piano di salvataggio” della Madonna riemerge con le sue apparizioni a Medjugorje (“la prosecuzione di Fatima”, ha detto lei stessa).

Da quando, nel 1981, sono iniziate queste straordinarie apparizioni oltrecortina si è assistito al compiersi di varie profezie (sulla guerra in Jugoslavia), al crollo del comunismo e a un’ondata oceanica di conversioni.

Proprio in questi mesi una commissione vaticana, presieduta dal cardinal Ruini, sta valutando le apparizioni di Medjugorje di cui Giovanni Paolo II era certo ed entusiasta. Dovranno decidere se accogliere questo estremo, formidabile soccorso soprannaturale o rifiutarlo, smentendo papa Wojtyla.

Il ceto clericale, che oggi è al centro della tempesta, dovrebbe considerare con umiltà l’immensità dei frutti e dei segni di queste apparizioni.

E, consapevole dei propri enormi limiti, affidare la Chiesa alla protezione di Maria, l’Immacolata, la sola “senza macchia”.

In caso contrario…



Antonio Socci

Da “Libero”, 2 aprile 2010