«Presto o tardi la moneta esploderà, senza la coesione necessaria»: così parlò la Cancelliera il 19 dicembre scorso, all’indomani dall’aver ottenuto la «vittoria per KO per Berlino» che i nostri politici e media chiamano «unione bancaria» (non c’è nessuna unione bancaria, ma questo lo vediamo poi).
Torniamo alla frase: «Presto o tardi l’euro esploderà, senza la coesione necessaria». Come ha notato l’economista Jacques Sapir, a prima vista la dichiarazione è perfettamente condivisibile. Tutto sta a vedere cosa si intende per «coesione necessaria»: Gli europeisti e federalisti hanno sempre inteso la «coesione» come un sistema di trasferimenti finanziari da uno stato ricco a uno stato dissestato. Si fa così negli Stati Uniti, che sono appunto una federazione, e fanno così i lombardi trasferendo (a loro insaputa) 50 miliardi l’anno alle Regioni del Sud – che essendo in mano alle camorre non sono mai sazie (1).
Vi pare che la Merkel, e il popolo tedesco, possano accedere a questo senso della parola «coesione»?
La Germania dovrebbe trasferire ogni anno agli stati meridionali l’8-10% del suo Pil. Ogni anno, sborsare 220-230 miliardi di euro per pagare l’Italia e la sua classe di parassiti, i cui vertici si pagano emolumenti tripli ai vertici politici tedeschi. Vi par possibile?
«La solidarietà intra-europea è semplicemente incompatibile con la strategia fondamentale della Germania: restare competitiva a livello mondiale», ha spiegato Patrick Artus, un altro economista francese di primo piano. Berlino dovrebbe suicidare il suo sistema economico per pagare Gasparri, Carfagna, Napolitano e Befera (e gli altri dai titanici emolumenti): suvvia, europeisti dei miei stivali…
Cosa intende dunque Merkel per «coesione necessaria» a salvare l’euro? Ben sapendo che alle capitali europee (e soprattutto agli elettorati) sarebbe difficile far accettare altre cessioni di sovranità, la Cancelliera vuole che i governi europei, ciascuno per sé, stringano dei «contratti» con la Commissione. Contratti «cogenti», ossia costrittivi secondo il diritto civile, in cui gli Stati si impegnano a fare le riforme «strutturali» pretese da Berlino, in cambio di un eventuale, ipotetico sostegno finanziario. E mica con la Commissione, quella è solo la foglia di fico: di fatto, i contratti costrittivi che ciascun governo dovrà firmare, li firma con Berlino. Che comanda di fatto la Commissione.
Infatti lo ha confermato Olli Rehn, il commissario che – smanioso di succedere a Barroso, dunque scodinzolante verso Berlino che può decidere il suo destino – ha subito spiegato l’uscita delle Merkel: «Abbiamo bisogno di più pressione sulle riforme strutturali perché ognuno si impegni». Ecco pronunciata la parola: più pressione. Persino Vienna, persino gli alleati più solidi della Germania hanno inteso la gravità della cosa, e si sono allarmati: «Ogni regola costrittiva deve rispettare i parlamenti», ha detto l’austriaco Werner Faymann. Solo i nostri Napolitano, Letta, Renzi (e razzumaglia parlamentare varia) non hanno capito.
Cosa bisogna capire? Che – come ha scritto ancora Sapir – «ciò equivale a costruire, a fianco delle istituzioni europee, un altro sistema istituzionale in cui i diversi Paesi sarebbero legati alla Germania in modo cogente, dato che per Berlino i contratti hanno forza di legge».
Dunque è questo il punto: un sistema istituzionale di fatto sta per sovrapporsi alle cosiddette istituzioni europee (all’eurocrazia), e ne prenderà il posto: a nostra insaputa. Non che sia sbagliato: la Merkel mostra di non aver alcuna illusione sull’esistenza di un fantomatico «popolo europeo», come sognano i federalisti della «solidarietà» utopistica. Non fa che adempiere al mandato della Corte Costituzionale di Karlsruhe (30 giugno 2009) che ha accettato sì il trattato di Lisbona, ma sotto condizione dell’approvazione, da parte del parlamento tedesco, di tutte le norme e direttive europee: ciò perché “the European Parliament is not a body of representation of a sovereign European people”.
Questa sentenza non solo ha negato l’esistenza di un «popolo europeo» [e dunque di una comunità di destino – logico, se si ricorda quello che significa «popolo» (Volk) nella cultura tedesca] ma stronca le fumisterie «federaliste» sovrannazionali – le stronca almeno per quanto riguarda la Germania, in quanto Karlsruhe ha mantenuto alla Germania la sovranità nazionale – unica, visto che gli altri governi vi hanno più o meno rinunciato. Per Karlsruhe, infatti, il potere della UE è «derivato» e non nativo, primigenio come la sovranità del Volk. Ora Berlino riconosce la sovranità degli altri popoli (e loro governi) in Europa, infatti li lega a sé con «contratti» – che sono beninteso «liberi» – dove accettano le regole stringenti e severe. Rinunciate alla sovranità? Fatti vostri…
In ciò, Berlino porta un realismo brutale, che sarebbe persino benvenuto se non lo avesse avvolto nella finzione di mantenere le istituzioni precedenti (la Commissione che stringe formalmente i «contratti») svuotandole di fatto, e se il mutamento fosse stato il risultato di una chiara analisi – da parte di tutte le capitali – del fallimento europeista e una risistemazione discussa ad adottata alla pari con gli altri governi. Invece gli altri governi vacuamente si tengono alla finzione di un futuro federalismo, senza porre il problema con onestà intellettuale. Lo dimostra il fatto che abbiano salutato la recente «unione bancaria» con squilli di tromba, come «un passo avanti decisivo», come ha più o meno dichiarato Saccomanni.
Effettivamente, nell’autunno 2012, i Paesi del Sud Europa, guidati dalla Francia, avevano strappato il principio di «unione bancaria»: che nelle intenzioni doveva essere insieme un meccanismo di sorveglianza e regolamentazione delle banche dell’eurozona, ma anche un meccanismo per la gestione concertata delle crisi bancarie. «L’inchiostro non si era ancora asciugato su tale accordo», scrive Sapir, «che la Germania ha fatto di tutto per svuotarne la sostanza; ovviamente, riuscendoci». Mentendo, Le Monde e tutti gli altri «grandi» media hanno appunto definito questo fallimento «un passo avanti decisivo per l’euro», «un buon accordo che corregge le falle dell’eurozona»… sia per ordini ricevuti da qualche loggia, sia per coazione a ripetere i cliché massonici che accompagnano l’europeismo e non possono essere sostituiti per mancanza di idee, io non so: «Politica perdente non si cambia», ha ironizzato qualche osservatore. Per smascherare la menzogna basta citare due punti della cosiddetta unione bancaria:
1) Il meccanismo di supervisione non riguarda che 128 banche sulle 6 mila che operano nella zona euro. Soprattutto, le casse di risparmio regionali tedesche, che finanziano l’industria e in cui si annidano i riservati legami tra politica e imprese dello specialissimo «liberismo» germanico, sono sottratte alla supervisione della BCE, esattamente quello che Berlino ha fortemente voluto.
2) Quanto al fondo di risoluzione delle crisi – a tutti le banche di tutti i paesi devono contribuire, ma Berlino molto di più – sarà di 55 miliardi: cifra semplicemente ridicola, se si pensa che alla Grecia sono stati dati crediti per 241 miliardi per ottenere il bel risultato che sappiamo, il Portogallo ne ha avuto (sotto gravi condizioni) 78, alla Spagna non bastano nemmeno lontanamente i 41 e passa che ha ottenuto dal MES, sigla per l’orwelliano Meccanismo Europeo di Stabilità (e oggi si strombazza l’uscita della Spagna dal MES come un gran successo: sì, forse per le banche, ma il 27% di disoccupazione permanente non è stato risolto…)
Ma non basta: la bella cifra di 55 miliardi sarà raggiunta non prima del… 2026. La pseudo-unione bancaria, entrerà in funzione con quella cifretta risibile non prima di 12 anni: periodo in cui possono scoppiare crisi bancarie enormi, e Berlino s’è assicurata il diritto di non cacciare nemmeno un soldo per salvare banche altrui.
Germania, Olanda e Finlandia volevano soprattutto una cosa: evitare ogni ricorso al denaro pubblico. O detto altrimenti: quei tre Paesi creditori hanno voluto rimangiarsi gli impegni presi col MES, che permetteva di utilizzare i fondi per la banche di tutti i Paesi. E ci sono perfettamente riusciti.
E chi paga invece? I depositanti delle banche che entrano in crisi. È stato istituzionalizzato, infatti, il metodo applicato per la prima volta a Cipro: se i vostri depositi sono superiori a 100 mila euro, la banca li può confiscare . È un bel risultato, dopo che per anni s’è detto che l’euro aveva i suoi difetti sì, ma «protegge il risparmio» dalla svalutazione. Si noti che soltanto la zona euro (non l’area dollaro, non lo yen..) ha bisogno di mettere le mani sul risparmio, tradendo la fede dei depositanti, per la via della politica conservatrice della BCE, anche questa imposta dalla Germania.
Conclusione: Berlino (coi suoi satelliti) è di fatto uscita dall’Europa «solidale», mantenendo però l’euro. Ossia la moneta che, sottovalutata per lei (il marco sarebbe il 30% più caro) le facilita l’export – mentre lo ostacola a noi.
Non sarebbe il caso di porre la questione, per il nostro governo, con chiarezza politica e intellettuale? Invece lorsignori fingono che la UE esista ancora e si avvii verso il «federalismo».
È vano e profondamente menzognero continuare a presentare come possibile l’esito federalista, che s’è invece allontanato definitivamente (avete più sentito riparlare di eurobond?). Ed è pericolosissimo: i nostri semi-governanti, senza idee alternative come sono, possono essere indotti a firmare i «contratti» proposti da Frau Merkel: il che significa farci sostenere la totalità dei costi necessari alla sopravvivenza dell’euro, mentre la Frau è la sola a trarre vantaggio dalla moneta unica. Al contrario, i contratti (dice Sapir) «affonderanno l’Europa del sud e la Francia in una recessione storica, da cui usciremo devastati sul piano industriale e sociale». Bisogna invece prendere atto che il sistema, «anziché porre l’euro al servizio dell’economia, sacrifica l’economia a profitto dell’euro».
Ma soprattutto, bisogna prendere atto dal cambiamento politico che è avvenuto. L’Europa che i congiurati alla Monnet vollero «senza patrie», s’è mutata in una inquietante replica del primo Reich, quando un solo Stato forte e sovrano – la Prussia – aggregò attorno a sé i principati e ducati germanofoni in un sistema di «comando e obbedienza», in un impero. Una «patria» che annulla le altre patrie, con l’aggravante che l’egemone neo-prussiano non prova alcuna solidarietà verso quelli che non parlano tedesco, e dunque non sono il suo Volk.
Bisogna aver chiaro quel che la Merkel ha sottinteso con quella frase sull’euro che «presto o tardi esploderà, senza la coesione necessaria»: visto che un’Europa federale non è nemmeno concepibile per i tedeschi, la coesione che dichiara «necessaria» non è altro che accettare la totalità delle condizioni tedesche; e se non lo facciamo, è disposta a dire addio all’euro; è il suo aut aut con cui pensa di farci accettare i suoi «contratti» cogenti. È la prima volta dal 1945 che un Cancelliere tedesco espone con tanta crudezza il suo progetto di dominazione dell’Europa, ed è una colpa gravissima dei nostri governanti (chiamiamoli così) non cogliere invece l’occasione, prendere la Merkel in parola e avviare la dissoluzione concordata dell’euro.
Né Letta né Renzi saranno quelli che lo faranno, e la loro responsabilità storica sarà imperdonabile.
Certo che l’Italia avrebbe urgentissimo bisogno di riforme «strutturali»: essenzialmente, un radicale risanamento-sfoltimento dell’amministrazione pubblica, della magistratura, delle Regioni (da abolire), per mettere il colossale apparato parassitario al servizio della nazione, invece che – come oggi – la nazione sia prostrata a servirlo.
Ovviamente, costoro non hanno nessuna intenzione di farlo, perché sarebbe incidere sulla propria carne e delle proprie clientele. La cosa che faranno sarà di firmare, per nostro conto, i contratti della Merkel, e poi di aumentarci le tasse.
Lo ha capito bene il vecchio economista Paolo Savona, non da oggi fautore di un piano di uscita dall’euro. Come ha scritto su Milano Finanza il 28 dicembre,
«Uscire dall’euro? Mai detto, ma ciò non può significare che non si debba essere preparati a farlo (il Piano B), ove la situazione peggiorasse per nostra colpa o per eventi esterni sui quali non possiamo influire. Non possono esservi posizioni precostituite (stare o non stare) su temi vitali per il nostro Paese (…) Uscire oggi dall’euro è un problema molto serio che richiede un’intensa azione diplomatica preparatoria per nuove alleanze, come lo richiede la messa a punto dei modi per restarci».
Insomma, dice Savona a Renzi e Letta (e Napolitano, Saccomanni eccetera), se volete restare nell’euro, allora studiate come restarci, perché il problema è molto serio, almeno altrettanto quanto uscirne. E i metodi per restare nell’euro, continua il vecchio economista,
«… non possono essere l’aumento disordinato della pressione fiscale, alimentato dalla filosofia redistributiva dei redditi e della ricchezza dai presunti ricchi agli effettivi poveri che contraddistingue l’attuale “svolta dei quarantenni” [Letta, Renzi, Alfano, ndr). Se essi non provvedono a due interventi urgenti, la ristrutturazione del debito pubblico con garanzia di cessione del patrimonio dello Stato e il taglio di almeno il 3% della spesa pubblica, per acquistare tempo e procedere a una riforma radicale che richiede tempi lunghi, quella della pubblica amministrazione, non usciremo dalla crisi, anzi ci addentreremo in essa».
«Lo Stato assorbe la metà del pil ed è l’unico settore che si è espanso nel corso della crisi, mentre tutti gli altri si sono ridimensionati. Se poi i quarantenni mettono mano, sorretti dai fautori della crisi attuale, a una maggiore patrimoniale rispetto a quella che è già stata decisa, allora l’uscita dall’euro verrà causata da chi prenderà questa decisione».
Al contrario, «se saremo capaci di fare questa riforma (non certo con questi politici, ndr), saremo anche rispettati e forse potremo dire la nostra per la riforma dell’Unione Europea, anch’essa da realizzare in più tappe: ritorno alla legalità delle decisioni e al rispetto degli accordi; attribuzione alla BCE almeno del compito di intervenire sul cambio dell'euro e al Parlamento Europeo il potere di decidere, su proposta della Commissione, di attuare un piano di infrastrutturazione e di investimenti in ricerca e sviluppo nell’ambito del 3% del pil europeo. In breve, uscire non dall’euro ma dall'incubo e rientrare nel sogno europeo, quello in cui abbiamo sempre creduto e che resta un passaggio storico indispensabile. Chi si oppone genera in un secolo la terza tragedia dell’Europa che si voleva evitare».
Matteo Renzi, è in ascolto? Telefono occupato.
1) È quel che ha spiegato il Nobel Christopher Pissarides, della London School of Economics, in una recente conferenza: «La California è stata costruita con il denaro della Costa Orientale USA, che ha finanziato infrastrutture, canali e strade alla fine del XIX secolo. La Cina trasferisce oggi risorse dal dalla sua costa ricca e sviluppata, all’interno per approntare infrastrutture. La Germania ovest ha trasferito risorse alla Germania Est. Perché non facciamo lo stesso in Europa? Perché loro [California e New York, Cina costiera e Cina interna, Germania Est ed Ovest] si sentono parti di una sola unità, mentre in Europa no». Non si può esser più chiari a denunciare il vuoto di «destino comune». Ma Letta Renzi, Napolitano e Saccomanni la sanno più lunga, e non ne prendono atto.
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