da nobigbanks.it
La convinzione che la ripresa economica sia ostacolata dalle troppe regole è così radicata che non passa giorno che qualcuno invochi le famigerate Riforme strutturali, che poi sono liberalizzazioni e privatizzazioni in ossequio al dogma: più concorrenza alimenta il benessere e fa crescere il Pil.
Le riforme strutturali mirano per l’appunto ad aprire l’economia ai grandi capitali internazionali, alle bolle speculative in cerca di asset da fagocitare, per sfamare gli squali della finanza che devono rifinanziare i loro debiti da gioco con nuove attività e nuovi mercati.
Per queste ragioni vi proponiamo un paper di Claudio Giudici (ospite tv di Santoro a Servizio Pubblico) che è assai utile sia nell’illustrare la strategia delle privatizzazioni e liberalizzazioni degli Anni ’90, che nell’individuare le origini della difficoltà di tenuta del tessuto produttivo, con tanti sacrifici e sofferenze per famiglie e imprese.
Leggendolo si comprenderà che i problemi sono originati dalla deregolamentazione dei mercati finanziari e dalla pressione dei mercati sui conti pubblici, che premono in direzione di nuove misure di deregolamentazione – dalle liberalizzazioni alle privatizzazioni– nel tentativo di trasferire nuovi asset dell’economia reale al circuito finanziario, aggravando il già compromesso tenore di vita dei cittadini.
Con ‘La distruzione dello Stato Sociale attraverso la catastrofe delle liberalizzazioni privatizzazioni in Italia‘ l’idea per cui le liberalizzazioni e le privatizzazioni portino benefici all’economia, viene totalmente confutata.
Si dimostra che:
1 – le liberalizzazioni portano ad un aumento dei prezzi;
2 – le liberalizzazioni portano alla distruzione di posti di lavoro ed all’abbassamento degli stipendi dei lavoratori e dei fatturati delle piccole imprese;
3 – la liberalizzazione-privatizzazione dell’impresa pubblica nel periodo 1992-2000 non è stata conseguenza dell’inefficienza economica;
4 – i processi di liberalizzazione-privatizzazione non hanno minimamente migliorato la capacità produttiva italiana;
5 – le liberalizzazioni favoriscono i concentramenti di capitale in poche ricchissime mani;
6 – il rendimento finanziario delle aziende privatizzate è stato peggiore rispetto alla generalità del mercato finanziario italiano
Compresa la logica che ha guidato l’attacco al mondo del lavoro, condotto con sapiente maestria comunicativa, si avrà modo di riflettere sui luoghi comuni che sono stati disseminati in questi anni dalla cattiva stampa e da pessimi professori.
Per fare un esempio, se guardiamo ai tempi lunghi della storia, non è mica vero che ci fosse poca concorrenza per tutti gli anni ’50-’60-’70 nel mondo Occidentale, eppure oggi viene sbandierato il concetto della ricerca di nuova ‘competitività’ che è poi la capacità delle aziende di stare al passo della “concorrenza”, che porta con sé non poche contraddizioni:
1) L’esaltazione della concorrenza rappresenta un imbroglio ideologico perché non dà risposte alla vera domanda popolare: come aumentiamo la capacità produttiva del lavoro?
2) Purtroppo ragioniamo con una personalità doppia: come consumatori e investitori siamo guidati dalla convenienza individuale, ma come cittadini capiamo che esasperando la concorrenza si accresce la disparità dei redditi e si tagliano i diritti dei lavoratori.
All’opposto, una politica che abbia a cuore la prosperità di uno stato deve:
1. avvicinare il lavoro alla proprietà;
2. ridurre la sperequazione dei redditi;
3. impedire la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi.
Ahinoi a partire dagli anni Novanta si è incentivato la finanza speculativa – che poi ha fatto crac – e disincentivato l’economia produttiva, ridottasi costantemente, causando l’incapacità di sostenere lo stato sociale così da far lievitare il debito (pubblico e privato).
E così si comprende la logica che porta allo smantellamento dello stato sociale.
“Le liberalizzazioni si sono dimostrate la porta di ingresso ai processi di ristrettissima concentrazione privatistica di ciò che prima era pubblico o comunque diffuso e parcellizzato tra una vastissima pluralità di imprenditori.
In ogni caso si è assistito a fenomeni di distruzione dei posti di lavoro, abbassando dunque il monte salari e dunque le entrate dello Stato. Se da un lato con la svendita dell’industria nazionale lo Stato ha perso importantissime voci di entrata, dall’altro lato, quello della contribuzione fiscale, si è assistito allo stesso fenomeno. Ciò ha messo in crisi il sistema di welfare. Il fatto che oggi dunque il sistema non sia più sostenibile è diretta conseguenza di omicide scelte politiche. Il paradosso è che dopo avere distrutto l’industria nazionale e posti di lavoro altamente qualificati, ora si pretende che la cittadinanza accetti supinamente la distruzione del sistema di welfare che dal ’48 ai primi anni ’70 si era andati costruendo.
Dallo Stato sociale dell’universalismo dei diritti, si è passati dunque – per via contingentata e non per nuova illuminata acquisizione della civiltà – allo Stato sociale che si occupa esclusivamente dei bisogni degli strati più poveri della popolazione.”
***
Nessun commento:
Posta un commento